Da Federico Boccaccini, dottorando in filosofia alla Sorbona di Parigi, ricevo questa interessante riflessione sul rapporto tra movimento gay e destra europea.

Se gli osservatori del costume e i politici non di carriera del nostro paese anziché guardare il proprio ombelico fossero più attenti a ciò che accade intorno a loro – e con «intorno» intendo dire nel mondo, o almeno in Europa-, allora avrebbe dovuto far discutere non poco la scelta presa dalla filosofa statunitense Judith Butler questo giugno, quando dal palco del Christopher Street Day di Berlino (il Pride berlinese) ha rifiutato il Civil Courage Prize che gli organizzatori le avevano assegnato per il suo impegno civile. Ciò che dovrebbe far discutere non è tanto il rifiuto in sé, ma la sua motivazione. «Devo prendere le distanze dalla complicità con il razzismo» ha dichiarato la filosofa di Berkeley, «compreso il razzismo islamofobico». Una parola in particolare passava di bocca in bocca nei giorni succesivi nella comunità gay berlinese: Homonationalismus.

Ora, per chi non conosce il contesto questa motivazione sembra più che accettabile, perché discuterne? Il fatto è che le parole di Butler, filosofa lesbica e teorica queer di fama mondiale, erano indirizzate agli organizzatori stessi di uno dei GLBTQ Pride tra i più importanti d’Europa accusandoli, con parole molto dure, di silenzio o addirittura di complicità nel razzismo verso gli immigrati musulmani, osservando come la comunità Queer possa essere usata come veicolo di islamofobia in momenti di paura. «Noi, lesbiche-gay-trans, dobbiamo proteggerci contro questo nuovo odio verso gli immigrati». Potendolo, ha dichiarato, avrebbe preferito dare questo premio alle associazioni omosessuali GLADT, LesMigraS, SUSPECT e ReachOut, le quali lavorano con e per gli immigrati omossessuali e contro ogni forma di discriminazione razziale. Anche contro quella che arriva dall’interno della stessa comunità gay.

Questo è il punto. Ed è un punto molto delicato e abbastanza nuovo per la cultura e la politica gay. Anni fa durante le manifestazioni di sinistra, le associazioni gay sfilavano accanto alle associazioni antirazziste poiché, si pensava, razzismo, sessismo, omofobia e transfobia sono tutte figlie dello stesso padre, ossia il fascismo, che per i gay e le femministe si declinava in patriarcato eterocapitalista. Questo qualche decennio fa, quando si credeva di essere tutti sulla stessa barca. Poi sono caduti i muri, sono crollate le torri e il mondo gay ha iniziato a riconoscersi sempre più nel proprio territorio, in stati che sempre più hanno iniziato a riconoscerci diritti e così la comunità ha iniziato ad abbandonare l’idea di una internazionale pansessuale. Per questo oggi si parla di «omonazionalismo», ossia di una identità gay nazionale. I confini degli stati esistono, così come esistono le leggi, e vivere in un paese o in un altro per un gay non è la stessa cosa: in alcuni ti puoi sposare con il tuo partner e adottare dei bambini, avere la tua casetta e portare a spasso il cagnolino, in altri ti impiccano o ti lapidano per il solo fatto di esistere. Tra i due estremi tutte le sfumature del caso: galera, tortura, pressioni e insulti sociali o mancanza di diritti che ti rendono cittadino di serie B.

Questo ha fatto si che un gay o una lesbica bianchi europei oggi abbiano paura che certi diritti conquistati possano essere rimessi in discussione con l’afflusso di immigrati portatori di valori contro i quali tutti noi abbiamo lottato per anni e che alla fine siamo riusciti, in parte, a cambiare (tranne che in Italia). La questione è seria e questa nuova politica sociale del sospetto all’interno della comunità GLBTQ sta prendendo piede in tutta Europa. E’ ciò che io chiamo il paradosso della liberazione: più gli stati hanno delle leggi all’avanguardia in materia di diritti civili per i propri cittadini -vedi Olanda, Svezia, Germania, ecc.-, maggiore è il sospetto verso gli immigrati, in particolare verso quelli di religione islamica, il che ci rende un pò incivili, anche perché gli immigrati non sono tutti uguali. Finché vivevamo in uno stato di discriminazione e violenza continuata ogni paese era uguale, l’omosessualità era praticata ovunque e quasi ovunque proibita, al massimo tollerata se vissuta di nascosto e in silenzio. Si provava anzi simpatia verso gli stranieri, al più alimentavano il nostro immaginario erotico e non la nostra paura. Oggi le associazioni gay di destra sono in aumento e sono le prime a chiedere ai governi leggi più severe in materia di immigrazione. Il diritto cambia la cultura e la cultura cambia il diritto, per questo ogni volta che si chiede una legge dobbiamo pensare a fondo a ogni sua conseguenza. Basterebbe ricordare che le leggi sono uguali per tutti indipendentemente da chi si è, immigrato o no. Il fatto è che questa paura soffia proprio da quei paesi dove vi è più coscienza civile e egualitarismo giuridico, dove quindi i gay dovrebbero sentirsi più protetti (non parlo per l’Italia ). Il problema dunque sembra più profondo.

Non so giudicare se Butler abbia fatto bene a rifiutare questo premio, so solo che ha indicato un problema che la comunità GLBTQ dovrà affrontare nei prossimi anni e che dovrebbe porsi l’intera società: come armonizzare il pluralismo delle differenze affinché la libertà di ognuno sia rispettata e non si inneschi una pericolosa «guerra tra poveri»?

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