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Il divanetto di Montecitorio

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Il divanetto di Montecitorio, con D’Alema e Casini che progettano le loro piccole intese mi ricorda, detto senza ironia, le panchine del mio doposcuola, alle elementari, quando organizzavamo i nostri scambi di figurine panini. Una valida per due calciatori, uno scudetto nel valeva cinque, Pizzaballa era fuori mercato. Adesso c’è Vietti, non Pizzaballa, ma lo spirito è lo stesso: ci si siede accanto, ciascuno tira fuori le proprie figurine e si tratta: Csm, Rai, direzioni… In teoria, nulla di male, solo liturgie goliardiche.

Se non fosse che quei mercatini e quei piccoli inciuci li sentiamo predicare dai suddetti Casini e D’Alema da una quindicina di anni: stesso divanetto, stessa aria annoiata per la plebe che non capisce l’alta politica. Il paese nel frattempo è crepato, ma loro restano lì, infastiditi e inamidati come alla corte di Francia, convinti che in politica tutto debba avere sempre un prezzo, un mercato, un profitto. Adesso quaranta senatori del Pd, scesi dal pero, scoprono che nel loro partito le decisioni si prendono alla buvette di Montecitorio e non negli organismi. Alcuni di loro li conosco come le mie tasche e ve li potrei citare uno ad uno: salirono sulla zattera dei democratici due giorni prima che Veltroni chiudesse le liste bloccate per Montecitorio. Altri fecero lo stesso passo di danza, breve e svelto, con Di Pietro. Ciascuno di loro abiurò vecchie militanze, giurò al nuovo sovrano: e tutti furono nominati onorevoli.

Oggi protestano, scrivono, s’indignano: tanto è gratis.

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