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La sete di spazi del teatro

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Nella sua sete di spazio il teatro ha sempre frequentato architetture dismesse, vecchi teatri mantenuti nel loro sublime delabrée, come le Bouffes du Nord di Peter Brook, ma ancora meglio fabbriche abbandonate da sognare come istituzioni restituite ai cittadini in maniera stabile, o almeno precariamente stabile: è il caso esemplare del Teatro India di Roma (Ex Mira Lanza).

Ma nello sbarcare tra capannoni e cortine di mattoni affumicate c’era sempre un’idea di avanguardia, di esplorare e riguadagnare luoghi, stabilire un trattato di pace con la Zona stalkeriana, o più semplicemente la periferia urbana, restare lì a sviluppare qualcosa per il futuro. Insomma effimeri ma stabili, improvvisi ma perduranti, in accordo con una poetica piuttosto consolidata nello scorcio del secolo.

Al Napoli Teatro Festival Italia, concluso pochi giorni fa, si è assistito a un episodio di toccata e fuga davvero straorinario. Si è compiuta una colonizzazione intermedia, una fase di sviluppo da sbrigare rapidamente, quasi che nel transito da fabbrica dismessa a centro commerciale fosse necessario incuneare un ricordo di bellezza perduta, a testimonianza di ciò che potrebbe essere, ma non è, né sarà mai più. Il “come se” ce l’avremmo potuta fare a diventare un posto normale: Berlino, Barcellona, Lisbona… ma no.

L’ex birreria Peroni di Miano, zona Nord di Napoli, ha ospitato due palcoscenici e strutture adeguate per fare teatro nella decina d’anni a venire, ha visto arrivare pubblico e artisti e vivere grandi avventure teatrali (che sono riuscite a far capire la relatività del tempo anche ai sassi) con le 9 ore di Robert Lepage (Lipsynch), le 12 dei Demòni di Stein, le 4 e passa del datatissimo Amleto di Langhoff e le sole due scarse filate via in farsa con i ragazzi di Punta Corsara che mettevano in vita il Pourceaugnac di Moliere. Un mese e poi si chiude tutto.

Pullman navetta per ottimi safari teatrali, tra Secondigliano e Scampia, nel quartiere dove ancora abita l’indigeno fenomenale James Senese. Lo notava Massimiliano Virgilio sul Mattino di Napoli, come a cinque anni dalla chiusura della fabbrica della Peroni di Miano naturalmente resta ancora insoluta la questione che riguarda la ricollocazione dei venti lavoratori “dismessi” quando nel 2005 il marchio Peroni è stato acquistato da una multinazionale che oggi appartiene all’immobiliare Minoter.

L’ex birreria dopo la parentesi ricreativa verrà presto demolita per fare spazio a un centro commerciale, un parco e un albergo. “Accendere i riflettori su un luogo per poi abbatterlo subito dopo è un controsenso. Così come demolire un luogo rivalutato a una nuova funzione culturale rappresenta, fuori e dentro metafora, il tradimento della speranza. Come tradimento della speranza fu licenziare i lavoratori della birreria, oggi inglobati nel grande spettacolo cittadino in qualità di comparse della protesta. Nemmeno in tempo di festa, dunque, questa città riesce a non tradire i suoi cittadini.”

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