La passione per la politica continua.
È stata intensissima negli anni universitari, ed è proseguita nel rapporto col Mondo. Quando il giornale diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del Partito radicale, io che non avevo mai bazzicato nei partiti, trovo l’esperienza interessante. Il Mondo si schiera fortemente a favore della Legge truffa, su cui mia moglie ha scritto un libretto. Carla ogni tanto mi dice: “Ma che cosa ho fatto! Ho trattato così male dei signori perbene. Guardando cosa succede oggi con il Porcellum e tutto il resto, dovrei chiedere scusa!”. Comunque Il Mondo si schiera incondizionatamente a favore della Legge truffa. La frase: “Turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc” è di Gaetano Salvemini, che la dice in quell’occasione. Ma allora io stavo dalla parte di quelli che si opponevano. Il riferimento per me fu il raggruppamento creato da Parri, Calamandrei e Jemolo, cioè Unità popolare, che fu importante per impedire che scattasse il 50,1 per cento che avrebbe dato il tanto vituperato premio di maggioranza che, paragonato alle attuali proposte, era un modello di democrazia.

La sua carriera di commentatore comincia allora?
Nella prima fase del Partito radicale sono stato molto attivo. Con il caso Piccardi – ex ministro del governo Badoglio, di cui si scoprì la partecipazione a un convegno con i nazisti – il partito si spacca. E Marco ne raccoglie la bandiera con Ernesto Rossi. Ma io non li seguo. In quegli anni comincio a scrivere sui giornali: prima per Il Globo, diretto da Antonio Ghirelli e sul quale scriveva mia moglie, poi per Il Giorno di Afeltra, poi su Panorama, dove ho tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Ogni settimana ricevevo reazioni, molte telefonate di politici. In quegli anni ero molto vicino al Partito socialista di De Martino, anche se non sono mai stato iscritto: ho collaborato allora con vecchi amici come Giuliano Amato, Enzo Cheli, Federico Mancini, Gino Giugni, Gianni Ferrara. Ricordo benissimo uno dei primi scioperi della fame di Pannella. Una notte suonò il telefono tardissimo: era De Martino, preoccupatissimo. “Rodotà, faccia qualcosa. Quello mi muore”. Una volta scrissi una rubrica per criticare Pertini, allora presidente della Camera, che non convocava il Parlamento in seduta comune per eleggere un giudice costituzionale. La questione riguardava Lelio Basso, sul quale c’era un veto della Dc e soprattutto una fortissima e antica antipatia di Pertini. Un giorno alzo il telefono: “Mi dicono che tu sei un compagno”. Era Pertini, che voleva spiegarmi le sue ragioni. E io gli risposi: “Anche a me dicono che tu sei un compagno. Ma i compagni certe cose non le fanno”. Da questa furibonda litigata è nata una profondissima amicizia.

Perché decise di accettare la candidatura come indipendente del Pci nel ’79?
Quando cominciò la fase del terrorismo, io criticai duramente le posizioni incarnate da Ugo Pecchioli. Mi chiamò Pannella e mi offrì la candidatura. Marco lo conoscevo molto bene. Gli ho sempre riconosciuto grandi meriti: nelle sue battaglie ci ha messo tutto, anche il corpo. Però era un autocrate, non ha mai permesso che si costruisse nulla. Decise di fare l’operazione di apertura al Movimento sociale, perché riteneva che in quel momento, dopo le battaglie su aborto, divorzio, obiezione di coscienza, il partito potesse avere una capacità attrattiva verso quel mondo: non potevo candidarmi con loro. A questo punto mi chiama Luigi Berlinguer: premetto che io mi ero pubblicamente schierato contro la Legge Reale e le norme “a tutela dell’ordine pubblico”. Erano i tardi anni Settanta, gli anni di piombo, io ero convintamente garantista. Ricordo un articolo di Paolo Mieli sull’Espresso in cui prendeva in giro il partito dei garantisti: “Segretario Mancini, vicesegretario Rodotà”. Erano momenti difficili di minacce e accuse, mi dicevano “difensore dei terroristi”. Luigi mi dice che l’altro Berlinguer, Enrico, mi vuole vedere per propormi una candidatura. Ma io volevo incontrare Pecchioli, che era esattamente dall’altra parte. Il 6 aprile 1979 entro per la prima volta a Botteghe Oscure. E gli dico: “Senta voglio capire i motivi di questa offerta, visto che ho preso posizioni pubbliche molto nette, facendo nomi e cognomi tra cui il suo”. Pecchioli mi dice: “In questo momento le tue posizioni su diritti e garanzie ci interessano. Però se tu avessi preso posizioni diverse sul caso Moro, non te l’avremmo chiesto”. Ero stato anch’io, come Repubblica, sostenitore della linea della fermezza, cioè ero contrario a ogni trattativa con i terroristi. Il che non mi aveva impedito di avere rapporti con la famiglia quando si cercò la via di una trattativa non con lo Stato, ma tramite terzi, come la Croce Rossa. L’idea di andare in Parlamento m’interessava: un giurista ha delle carte da giocarsi. Così decido di candidarmi. Pannella divenne una belva, Gino Giugni e Giuliano Amato erano molto sconcertati.

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