Quando si parla di “accoglienza” bisogna prima di tutto distinguere tra quella rivolta ai “rifugiati”, sempre doverosa,  da quella rivolta ai comuni migranti che deve essere invece severamente regolata da norme sull’immigrazione. L’attuale normativa italiana è basata sullo Ius sanguinis e su una normativa che in alcune parti è inutilmente restrittiva. E’ quindi giusto aggiornarla, ma sarebbe  sostanzialmente scorretto farlo dicendo che ha lo scopo di “ …rendere giustizia agli immigrati giunti in Italia da molto tempo e non ancora normalizzati con la cittadinanza italiana”. C’e’ molto di più da fare se si vuole fare qualcosa di veramente utile a entrambe le parti.

Lo “Ius soli temperato” attualmente in discussione al Senato, concederebbe la cittadinanza a condizioni più o meno severe, ma sempre con ampio e talvolta pericoloso automatismo. Quindi, se da un lato potrebbe risolvere positivamente i diritti e le attese di chi si è già meritato l’accoglienza con un lavoro e un comportamento irreprensibile e per lungo tempo, dall’altro lato potrebbe concederla anche a chi potrebbe non meritarla e costituire un grave problema.

Il punto è che non si può discutere di accoglienza tenendo disgiunto questo tema da quello dell’integrazione.

L’adozione dello Ius soli temperato in Italia cambierebbe radicalmente la politica dell’accoglienza nel nostro paese, e questo sembra davvero il momento meno opportuno per farlo, visti i problemi che si aprirebbero allargando le maglie dell’accoglienza senza aver preventivamente predisposto non solo le strutture di primo ostello, ma anche la nostra popolazione ad accogliere con spirito collaborativo il cambiamento di alcune radicate consuetudini. Senza dimenticare il difficile momento economico che, da circa sette anni, opprime il nostro paese con una crescita negativa e una disoccupazione che ha raggiunto livelli record.

Parlare di Ius soli temperato è comunque far riferimento ad uno “Ius soli” e lo Ius soli puro è ormai una norma fuori tempo e fuori luogo.

Tra le grandi democrazie del globo esso esiste oggi solo negli Stati Uniti, ma probabilmente non lo hanno ancora cambiato perché se lo ritrovano scritto nella Costituzione (1787). Probabilmente i padri fondatori della democrazia americana hanno voluto unire saldamente il luogo di nascita con la cittadinanza per rimarcare l’evoluzione della superiore identità nazionale statunitense contro la vecchia identità di coloni provenienti da paesi lontani. (Ma se la Gran Bretagna non fosse stata a quel tempo impegnata in altre faccende che la minacciavano in casa propria (la Rivoluzione francese nel 1789 e l’inizio delle campagne napoleoniche nel 1796) i ribelli d’oltreoceano avrebbero certamente dovuto sopportare qualche dispiacere non di poco conto.

Quindi la motivazione delloIus Soli americano” è esattamente contraria a quella che oggi ha l’Italia per accogliere e regolarizzare l’immigrazione dall’estero.

Negli Usa, benché si sia raggiunto un alto livello di società multietnica, l’integrazione multi-culturale non è invece migliore che altrove. Vi è solo una integrazione a “macchia di leopardo”. Ogni “macchia” ha le caratteristiche culturali prevalenti della maggioranza di popolazione che vi si forma, diventando presto un magnete di attrazione per gli altri della stessa etnia o ceto sociale. Un fenomeno di aggregazione diffusissimo ovunque e indipendente dalle regole e dall’organizzazione dell’immigrazione.

Come può avvenire la completa integrazione anche culturale?

Normalmente ci può arrivare solo il soggetto molto giovane (un bambino in sostanza) che è “costretto” (non con la forza ma per sua convenienza e per “osmosi” con i nativi) a integrarsi nella cultura che lo circonda. Chi arriva da adulto, specialmente se ottiene facilmente la cittadinanza, ha buone probabilità di non riuscire ad integrarsi mai, non solo culturalmente (vi sono tuttora migliaia di questi casi anche tra gli italiani d’America).

Ma se a livello locale imperversa una crisi economica, lo stesso fenomeno potrebbe verificarsi anche sugli immigrati giovani, che non riuscirebbero a uscire dal “cerchio protettivo” della propria comunità d’origine, tanto più se essa contiene anche marcate connotazioni religiose (molti terroristi inglesi e francesi escono da queste comunità).

Il fenomeno dell’immigrazione deve essere quindi affrontato con molta serietà e competenza, senza eccessivo spazio alla severità che potrebbe nascondere forti egoismi ancor più che razzismi (per fortuna molto rari, a mio parere, tra gli italiani) ma nemmeno pericolosi “buonismi”, che a livello legislativo potrebbero creare danni gravissimi da entrambe le parti.

Se davvero si vuole scrivere una legge moderna che regoli il diritto di cittadinanza agli immigrati provenienti da un mondo che diventa globalizzato, occorre scrivere una legge che, prima di concedere la cittadinanza, certifichi nell’immigrato non solo la conoscenza della lingua della nazione ospitante, ma anche un ottimo livello di assimilazione delle regole e consuetudini locali. Senza assimilazione non ci può essere vera integrazione e senza integrazione ci possono essere solo (specialmente tra i giovani) sacche di disadattati pronti a diventare un peso e anche un pericolo per tutta la società che, più o meno generosamente, lo ospita.

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