Il 2 marzo scorso era arrivata la condanna a 9 anni per Denis Verdini, oggi è arrivata la motivazione della sentenza sul brutto pasticcio del Credito cooperativo fiorentino (Ccf). La cui gestione, secondo i giudici del Tribunale di Firenze che hanno depositato le motivazioni del verdetto,  è “risultata imprudente quanto ambiziosa, seguita dalla consapevolezza, maturata dapprima dal senatore di Ala e, subito dopo, quanto meno a partire dal settembre 2008 anche dal management, di un imminente disastro, ormai inevitabile e reso poi palese dall’ispezione della Banca d’Italia del 2010“. Quella decisa da giudici per l’ex garante del patto del Nazareno non poteva prescindere, “nell’individuazione di una pena congrua ed adeguata al fatto concreto, dalle dimensioni della vicenda, dalla gravità enorme del fatto ricostruito, dalla patologia dei finanziamenti concessi, dall’indifferenza verso la vigilanza e dallo spregio delle regole”. Per i giudici “il danno è stato enorme…“, ma non solo secondo il Tribunale “non si può certo partire dai minimi edittali, salvo porre sullo stesso piano l’amministrazione di una società che distrae la macchina aziendale, percepisce illecitamente compensi, ruba la cassa e crea un danno di poche migliaia di euro e chi, invece, ha posto in essere le condotte precedentemente esposte”.

Per giudici senatore tentò di delegittimare ispettori Bankitalia
Nonostante siano incensurati gli imputati condannati in primis Verdini non hanno ottenuto il riconoscimento delle attenuanti generiche questo perché il senatore, secondo i magistrati, non ha preso “le distanze da quei fatti”, ed anzi, in alcuni casi, si è assistito ad un tentativo “di delegittimazione” dei Commissari straordinari, e anche “degli ispettori di Banca d’Italia”. Verdini, segnalano ancora i giudici, “ha rivendicato con orgoglio e tenacia la correttezza della sua gestione, sostenendo che al più vi saranno stati degli errori”, contestando l’operato dei commissari “ed esponendo alcune severe critiche al lavoro degli ispettori di Banca d’Italia”. Stesso discorso per gli altri imputati  anche se “alcuni imputati hanno reso dichiarazioni e altri hanno partecipato al processo. Quasi tutti risultano – e lo sono nonostante la presente condanna in primo grado – incensurati”-. Il collegio (presidente il giudice Mario Profeta), ha voluto spiegare, nelle prime pagine della motivazione, che si sarebbe “astenuto da giudizi”, ma non ha apprezzato “i toni polemici” emersi al processo.

Proprio per quanto riguarda la gestione: lo stato di insolvenza in cui finì l’ex Credito cooperativo fiorentino, per 20 anni presieduto da Verdini, fino al suo commissariamento nel luglio 2010, è “ascrivibile a condotte gestionali abnormi ed irregolari, riconducibili al management”, della banca “e non certo attribuibili a chi era intervenuto per porre fine e rimedio alle stesse”. Una risposta alle difese di alcuni imputati, in particolare del senatore di Ala, che avevano puntato il dito contro i commissari e la loro gestione. Per quanto riguarda il Btp (di Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei), per i giudici “un gruppo”, il tentativo di ristrutturare il debito fu “un’operazione davvero assurda”.

Ccf sostenne gruppo Fusi Bartolomei anche dopo crisi
“Anche dopo la percezione della fortissima crisi del gruppo Fusi Bartolomei, Ccf aveva continuato a sostenere i due imprenditori, nella piena consapevolezza della precarietà della loro situazione –  sostengono i giudici – . Le vicende relative agli imprenditori Fusi e Bartolomei e del Ccf (ma per certi aspetti si deve precisare tra i due imprenditori ed il senatore Verdini) vengono ad interferire reciprocamente”, tesi, per altro, sostenuta dai pm Luca Turco e Giuseppina Mione. Che la Btp di Fusi (condannato a 5 anni) e Bartolomei (a sei) fosse un “gruppo”, scrivono i giudici, era chiaro anche all’interno del Ccf ma “si era deciso di tenere separate le posizioni: era stata una scelta, non una sottovalutazione”. Una scelta non solo del presidente dell’istituto Denis Verdini: “l’intero management e lo stesso collegio sindacale”, per i giudici, erano “perfettamente a conoscenza” di quanto avveniva, “non solo in termini astratti, ma specifici e concreti”. I finanziamenti concessi alla Btp non sono quindi state solo operazioni “rischiose, ma viziate da una scelta ostinata, consapevole e testarda”. Tanto che “quando le banche più importanti li abbandonarono, pretendendo la sostituzione del management e degli organi di controllo delle società del gruppo Fusi-Bartolomei – si legge ancora nelle motivazioni -, per Ccf si aprirono le porte dell’inferno”. Del resto la Btp e tutte le altre società collegate, erano “imprese attive ma che vivevano sul filo del rasoio, sul ciglio del burrone”, per la “scaltrezza nell’attingere a finanziamenti che servivano ad avvalorare i progetti, che si autoalimentavano di nuova finanza, che serviva per effettuare movimenti infragruppo, che a loro volta determinavano un’apparenza di solidità, che invece nascondeva un precario equilibrio”.

I pm avevano chiesto 11 anni: “Era dominus della banca”
I pubblici ministeri Luca Turco e Giuseppina Mione lo scorso 12 gennaio, dopo una requisitoria andata avanti per cinque udienze, avevano chiesto per il senatore di Ala, imputato tra l’altro per bancarotta e truffa ai danni dello Stato, la condanna a 11 anni.  Per l’accusa il parlamentare era il dominus della banca (che usava come “un bancomat”) e di tutte le attività le attività editoriali organizzate per ottenere contributi pubblici e nei confronti degli “amici di affari”. Tutte accuse che i difensori del senatore, gli avvocati Franco Coppi e Ester Molinaro, hanno poi respinto con forza nelle loro arringhe. In particolare, spiegò Coppi, “i pm hanno travisato la sua personalità” definendolo “assetato di potere e di denaro. Una rappresentazione che non corrisponde a quello che Verdini già era in quegli anni, ossia un politico di spicco e un uomo senza problemi di denaro”. Assoluzione piena, “perché il fatto non sussiste”, era stata chiesta anche dai difensori di Parisi e degli altri imputati, compresi quelli degli imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei.

L’indagine, pm: “Finanziamenti senza garanzie”
Denis Verdini era stato rinviato a giudizio per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato il 15 luglio del 2014. Secondo l’accusa finanziamenti e crediti milionari sarebbero stati concessi senza “garanzie”, sulla base di contratti preliminari di compravendite ritenute fittizie. Soldi che, per la Procura di Firenze venivano dati a “persone ritenute vicine” a Verdini stesso sulla base di “documentazione carente e in assenza di adeguata istruttoria”. Tra questi anche l’ex senatore Marcello Dell’Utri che era stato finanziato più volte: anche se i 2milioni e 800mila erano poi rientrati con un bonifico l’ 8 marzo 2012. In totale, secondo la magistratura il volume d’affari, ricostruito dai carabinieri dei Ros di Firenze, sarebbe stato pari a “un importo di circa 100 milioni di euro” di finanziamenti deliberati dal cda del Credito i cui membri, secondo la notifica della chiusura indagini “partecipavano all’associazione svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni del Verdini”. In sintesi secondo l’accusa, Verdini decideva a chi dare, e quanto, mentre gli altri si limitavano a ratificare “senza sollevare alcuna obiezione”. A dare il via all’indagine indagine, la relazione dei commissari di Bankitalia che in 1.500 pagine, allegati compresi, avevano riassunto lo stato di salute della banca di Verdini. E le anomalie riscontrate. Altro capitolo quello dei fondi per l’editoria, che secondo la Procura di Firenze, avrebbe percepito illegittimamente per la pubblicazione di “Il Giornale della Toscana”.

Lo scorso ottobre Verdini era uscito indenne dal processo di secondo grado nell’ambito del processo per la Scuola Marescialli di Firenze. Verdini, che era stato condannato in primo grado a due anni di reclusione, era stato prosciolto con una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

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