A notte fonda qualcuno, dotato di permesso speciale, mi aiuta a superare il coprifuoco e mi porta nei pressi della linea del fronte. L’auto vola nelle strade periferiche della città completamente deserte. I semafori funzionano, ma ci si ferma al rosso. “Perché?”, chiedo. “Ci sono le telecamere in funzione e mi arriverebbero le multe a casa”. Ride. Non incontriamo né pattuglie, né posti di blocco. Più avanti i lampioni sono spenti e si procede nel buio più totale.

“La civiltà è rimasta alle nostre spalle”, ghigna l’autista. Da qualche parte, alla nostra destra, ci sono le macerie dell’aeroporto. L’altro lato della stradina è una fila di case distrutte, i cui spuntoni di ferro appena si vedono nel riflesso lontano della città. La notte senza luna offre un cielo impareggiabile con la Via Lattea quasi in rilievo.

Ancora per qualche chilometro svoltiamo in viuzze ancora asfaltate. Qui c’è gente che popola ancora i palazzi di molti piani. Si vedono rare finestre illuminate. E’ tornata la luce, l’acqua, il gas. La linea del fronte è a due chilometri e io faccio fatica a immedesimarmi con i fantasmi che sono rimasti qui a vivere, in mezzo alle macerie, con la prospettiva, tutt’altro che remota, di trovarsi in mezzo a colpi di cannone e di mitragliatrice.

Ci fermiamo nel buio tendendo l’orecchio. Il bosco impedisce di vedere più lontano. Il mio Caronte conosce la guerra. Ogni colpo che sentiamo, distintamente, lo commenta a voce bassa: questo è in partenza, questo è in arrivo. Questo è un mortaio questo altro e un cannone. Snocciola i calibri, con monotona pignoleria. A ogni tonfo pesante fa seguito una serie di raffiche. Sono fucili mitragliatori. “Ogni notte è come questa. Qualche volta di più, qualche volta di meno”. In un’ora, da diversi punti, in arrivo o in partenza, una quarantina di colpi di grosso calibro.

Si capisce da dove vengono, ma non dove sono diretti . Potrebbero arrivare anche qui? “Potrebbero”. Certo i colpi di cannone non sono diretti sulle linee di difesa della città. Passano sopra e cercano di colpire, a casaccio, le case. Lunghi silenzi, poi si ricomincia. Uno stillicidio che serve a ricordare la tempesta appena finita e ad avvertire che ne preannuncia un’altra, prossima ventura.

Donetsk vive così la parentesi, incertissima, di una guerra sconosciuta al resto del mondo e dell’Europa. E vota le sue “primarie” per dimostrare all’Ucraina che non si arrenderà, in ogni caso, non importa chi gli chiederà di farlo. Votano in massa, facendo festa, tra canti, balli, banchetti dove si offre il tè e si vendono le brioches a quattro soldi. Ma si trova di tutto in questi mercatini, secondo la tradizione che c’era anche ai tempi sovietici. Non è cambiato molto, salvo che adesso, qui, la gente a votare ci va senza bisogno che qualcuno la convinca. Hanno capito il significato e sono venuti.

La mattina dalla finestra del mio albergo, un cinque stelle semideserto, vedo il moderno stadio dello Shakhtior, costruito per il campionato europeo del 2012, anch’esso deserto, con le vetrate qua e là sfondate dai proiettili e dallo spostamento d’aria delle bombe. Non c’è più nessun campionato di calcio a Donetsk, e non ci sarà presto. Ma le strade sono spazzolate accuratamente. Il centro della città è uno specchio d’ordine e di pulizia. Il traffico è ordinato e intenso. Mi dicono che molti degli sfollati dell periodo più duro della guerra stanno ora ritornando, alla spiacciolata: sia quelli che sono fuggiti dai bombardamenti andando verso l’Ucraina, sia quelli che passarono il confine verso la Russia.

A mezz’ora d’auto da qui, vicino all’aeroporto che non c’è più, si vedono molte finestre ancora accese. Fatico a immedesimarmi con questa gente, che sta sulla linea del fronte, sicuramente perché non ha alternativa. Ma il teatro dell’Opera e balletto funziona ed è affollato. In scena l’operetta di un autore ungherese a me sconosciuto con il coro di cinquanta cantanti e l’orchestra stabile che realizza quattro spettacoli al giorno. Anche il circo funziona. Ma gli spettacoli sono stati anticipati di tre ore a causa de coprifuoco, che comincia alle 23 di sera e finisce alle sei del mattino.

La benzina costa 46 rubli (qui la moneta è il rublo russo), pari a circa 70 centesimi. A Rostov sul Don, Russia, dove sono atterrato, costa 39 rubli, poco più di 5 centesimi di euro. Sul corso dedicato a Shevchenko, scrittore ucraino per eccellenza, non l’omonimo che fu giocatore del Milan (qui nella Repubblica Democratica di Doneck hanno deciso di non rinominare le vie) entro in una piccola panetteria. Per curiosità giornalistica. Mi compro un etto di dolcetti simili a microscopiche brioches riempite di marmellata di mele. Pago 15 rubli, meno di dieci centesimi.

Quali siano le entrate della Repubblica non sono riuscito a saperlo, ma mi dicono molte cose che superano la fantasia. C’è la guerra che continua, ma l’Ucraina continua a comprare (e pagare in grivne) il carbone del Donbass nemico. E’ costretta a farlo perché le sue centrali sono state costruite per il carbone del Donbass e per passare ad altro carbone bisognerebbe ricostruire tutto. In una parte del precario confine si spara , ma altri posti di blocco lasciano passare. C’è chi va in Ucraina a ritirare la pensione in grivne. E torna nella repubblica ribelle a cambiare in rubli perché vive qui e non là.

Nelle vie di Donetsk si innalzano le scritte pubblicitarie dei DonMac. Sono i loro McDonald’s nuovi di zecca. Quando e se finisse la guerra è probabile che Mc Donald’s chiederà di vietare il marchio concorrente, anche se la “M” è parecchio diversa. Ma sarà una cosa lunga. L’Impressione è che le due nuove repubbliche del Donbass resteranno in piedi e si rafforzeranno. Anche se ci vorrà molto, molto tempo prima di tirare le somme del disastro compito dagli americani e dagli europei.

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