“Le immagini solitamente non hanno odore. Quella invece, che si formava sul viewfinder in bianco e nero della mia telecamera, ce l’aveva ed era anche forte e penetrante. Un odore sconosciuto, mai sentito prima che impregnava l’aria calda di agosto. Io ero lì. Riprendevo con la mia telecamera, dall’alto della banchina del molo esterno del porto di Bari, le lente evoluzioni della Vlora, completamente ricoperta di esseri umani, mentre cercava di attraccare, maestosa e indifferente alle tante motovedette che le giravano attorno. Molti si lasciavano cadere pericolosamente in acqua. Ma a bordo di quel cargo rugginoso erano così numerosi che nulla sembrava mutare nella densità di quella massa brulicante”. Venticinque anni fa, nel porto di Bari, sbarcava la nave Vlora. Come racconta al fattoquotidiano.it, Nicolai Ciannamena, un operatore della Rai tra i primi ad arrivare nel porto, la “nave dolce” portò in Puglia oltre 20mila albanesi. Giunse la mattina dell’8 agosto 1991, ed è ricordato come il più grande sbarco di migranti in Italia su una singola nave.

In poche ore il molo del porto di Bari si trasformò in una mattonella umana. La banchina 14 era nera, sporca di carbone. “Il primo giorno, – racconta Nicolai Ciannamea – approfittando della confusione, alcuni erano riusciti a uscire dal porto camminando e saltando sui frangiflutti esterni. Poi non fu più possibile e restarono lì, stremati dall’inedia e dal caldo. Quelli delle prime file erano più fortunati perché a loro arrivava cibo e acqua. Avevano i volti imploranti, pietosi, piegati dal dolore. La retroguardia invece aveva già voltato le spalle alla città e dietro, verso la testa del molo, era l’inferno. Verso questa gente, un amore sincero, presente già nel consiglio che Robert Capa dava ai giovani collaboratori dell’Agenzia Magnum: ‘Amate la gente e fateglielo sapere’”.

Tra quelle ventimila persone c’era anche Keler Dhima, un giovane albanese di Durazzo partito per caso, che ha trovato in Italia la sua seconda casa. Il suo racconto è commosso, carico di emozione. “Certe cose – dice – non si dimenticano mai. La nave aveva trasportato zucchero. C’erano ancora dei residui che con il caldo si scioglievano, attaccandosi dappertutto. Quella mattina non avrei mai immaginato che sarei partito. Ero con mio cugino. Suo padre, uno dei macchinisti della Vlora, era sulla nave. Aveva bisogno di aiuto, così salimmo per dargli una mano. Usammo le cime, ci arrampicammo. Le scale erano bloccate. Non avevo mai visto così tante persone su una nave in tutta la mia vita. Mentre eravamo su, però, la nave partì. Non me lo aspettavo, ma non ebbi paura. In fondo avevo 18 anni e niente da perdere”.

Come Keler, centinaia di ragazzi, pieni di speranza e di incoscienza, quel giorno lasciarono l’Albania in cerca di fortuna. Nessuno di loro immaginava che quel viaggio avrebbe segnato per sempre la storia. “Chi saliva sulla nave – spiega Keler – non poteva più scendere. La sala macchine era vigilata da persone armate. A bordo c’era il caos. Quella notte nessuno riuscì a dormire. Eravamo ammassati gli uni agli altri e il caldo era insopportabile. Quando arrivammo nel porto di Bari volevo scendere. Le scalette erano piene di gente e non mi sembravano sicure. Così mi arrampicai di nuovo su una cima e a metà mi lanciai in acqua. Era pericoloso, si rischiava di cadere addosso ad altra gente. Non so come sono arrivato alla banchina del molo. Nuotavo senza pensare a nulla. Ricordo che un poliziotto, per tenerci a bada, mi diede un colpo alla schiena. Mi fece male. Gli urlai: ‘Proprio a me?’. Non si aspettava che parlassi in italiano, ne rimase sorpreso. E si scusò”. La gestione di tutta quella gente mandò in tilt autorità e soccorritori. Con difficoltà si riusciva a far arrivare acqua e cibo a quelle migliaia di persone, che poi furono spostate nello stadio Della Vittoria di Bari

Lo racconta Keler: “Non ricordo bene cosa successe sul molo, dove rimanemmo alcuni giorni. A un certo punto con degli autobus ci portarono allo stadio. Rimanemmo chiusi là, sul prato. Non avevamo accesso agli spalti e il clima non era dei migliori. C’era tensione e gli elicotteri sorvolavano la zona. Un poliziotto, avendomi sentito parlare in italiano, mi chiamò e mi chiese di aiutare le forze dell’ordine a creare dei gruppi di persone da abbinare a una lista di città in cui saremmo stati mandati. Allo stadio ci portarono vestiti puliti donati dai cittadini baresi. Siccome mi avevano rubato i pantaloncini, ero rimasto in costume da bagno tutto il tempo. Così mi rivestii, ma vidi una persona che aveva i piedi feriti. Gli donai le mie scarpe e rimasi scalzo per i giorni a seguire”.

Il viaggio di Keler non era ancora finito: “Il mio gruppo era composto da 700 persone circa. Ci mandarono a Firenze in treno. Io ero sempre scalzo. Una volta arrivati ci prelevarono con dei furgoncini della Caritas e ci portarono nell’ospedale militare, per le foto identificative e le visite mediche. Poi ci spostarono in un albergo in centro, dove restammo due giorni. Io temevo che ci avrebbero rispediti in Albania. Conobbi una giornalista e le chiesi aiuto. ‘Trovami un lavoro e un alloggio, aiutami a restare qui’. Lei era molto giovane, voleva aiutarmi ma non era facile. Poi mi disse: ‘Non preoccuparti, domani vengo a prenderti, ho trovato una sistemazione’. Ma quella stessa notte il sogno di restare in Italia s’infranse. Alle tre di notte, ci prelevarono e un volo ci riportò a Tirana. Ero molto dispiaciuto. A settembre avrei dovuto fare gli esami di ammissione all’università, invece persi l’anno. L’idea di tornare però non mi era mai passata. E nel ’93, una volta ottenuto il visto, sono ripartito per l’Italia. I primi anni sono stati difficili, ma oggi sono contento, sono diventato chef. Tutto quel che ho fatto l’ho fatto da solo. Ma quel viaggio, quella notte non li dimenticherò mai. Ai miei figli non l’ho ancora raccontato. Sto aspettando che siano grandi. Il film “La nave dolce”? Non ho mai avuto il coraggio di guardarlo”.

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