Licenziato dal deputato M5s. “No, contratto cessato per il Jobs act di Renzi”. E’ la polemica che da due giorni riguarda il deputato M5s Massimo De Rosa, reo di aver allontanato il suo assistente parlamentare motivandone il licenziamento con la riforma del lavoro che, secondo chi lo accusa, gli imponeva invece di regolarizzarlo. Una vicenda per la quale De Rosa finisce in tribunale e scoperchia il vaso della precarietà in cui operano ancora oggi  i “portaborse” in Parlamento, a vantaggio degli stessi parlamentari. E’ stato il sito Gli Stati Generali a dare la notizia che è stata subito rilanciata dall’Associazione italiana collaboratori parlamentari, alle prese con la complicata transizione dai vecchi cocopro ai nuovi contratti a tempo determinato e indeterminato (pochissimi) previsti dalle nuove norme. Così pochi, in verità, che l’Aicp sta tentando da due mesi di sensibilizzare onorevoli  e questori delle Camere ad applicare la nuova disciplina, cosa affatto scontata per i tanti collaboratori che si ritrovano nel limbo e denunciano: “I parlamentari l’hanno discusso e votato, ma per loro il Jobs act non vale”.

Il deputato milanese De Rosa, ex vicepresidente della commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici alla Camera, aveva due assistenti parlamentari inquadrati con i vecchi contratti di collaborazione a progetto che la riforma manda in soffitta. Con il 2016 si sarebbero dovuti trasformare secondo le nuove regole, ma a dicembre De Rosa ha inviato una raccomandata per comunicare a uno dei due (retribuito mille euro netti al mese) di essere costretto – suo malgrado – a interrompere la collaborazione a fine anno. Causa: l’entrata in vigore del Jobs act. Il “balzo” tra i due regimi, però, era di per sé motivo di interruzione del rapporto? Sarà un giudice a chiarirlo. Il 19 gennaio, presso il tribunale di Roma, l’ex collaboratore ha depositato infatti un ricorso contro il suo licenziamento, contestando l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (otto ore di lavoro giornaliere dal lunedì al venerdì e attività) che non poteva essere interrotto “in assenza di giusta causa”. E per questo ha chiesto a De Rosa 21.646 euro tra differenze retributive, tfr e mancata indennità di preavviso. Il parlamentare rivendica di aver operato secondo le norme: “E’ una cessazione per sopraggiunti termini di legge imposti dal Jobs act”, ha spiegato a ilfattoquotidiano.it, precisando anche che c’è stata una riunione con i consulenti del lavoro del gruppo M5S che hanno indicato la necessità di chiudere i contratti del vecchio tipo. “Lo hanno fatto molti altri, io ho scelto di usare il mio budget per regolarizzare almeno uno dei due collaboratori con un contratto subordinato a tutti gli effetti, più oneroso ma giusto. E per questo vengo messo alla berlina io, è assurdo”.

Contemporaneamente molti assistenti parlamentari lamentano che gli onorevoli, di ogni colore politico, si siano in qualche modo “scordati” di applicare i nuovi contratti e proseguano tutt’ora la pratica di farli passare come dei collaboratori, quando svolgono mansioni caratterizzate da evidenti vincoli di subordinazione. Una prassi che nel passato ha prodotto anche assistenti parlamentari in nero o inquadrati come colf ma che perdura anche oggi, secondo Valentina Tonti, presidente dell’associazione dei collaboratori parlamentari. E  al fondo non ci sono mica questioni politiche, ma di portafoglio personale dei politici. “Il parlamentare non ha alcuna convenienza a regolarizzare i suoi assistenti”, spiega la Tonti. “A sua disposizione, oltre all’indennità parlamentare, ha circa 4mila euro al mese per le spese e ne deve rendicontare solo 2mila. Più gli costa il collaboratore in compensi e contributi, meno può spendere per altre cose come l’affitto di una sede locale, il commercialista, o comunque meno risorse nella sua diretta disponibilità”. Facendo un contratto di tipo subordinato, in altre parole, il netto diventa più basso e quindi non gli conviene. “Finché queste risorse non verranno messe interamente nella gestione di Camera e Senato – come accade ad esempio al Parlamento europeo o in quelli degli altri Paesi – casi come questo saranno all’ordine del giorno. Sopratutto in mancanza di un contratto specifico per la nostra figura, anziché contratti di natura privatistica. Noi chiediamo queste cose da anni, abbiamo fatto approvare anche ordini del giorno sul tema. Purtroppo di risultati, finora, non ne abbiamo visti”.

Vero è che ad oggi non è dato sapere quanti contratti siano stati riformulati e come. Lo abbiamo chiesto agli Uffici per le competenze parlamentari di Camera e Senato dove gli onorevoli sono obbligati a depositare i contratti in essere (vidimati dai consulenti del lavoro), pena il mancato rimborso della spesa nell’esercizio del mandato. In attesa della risposta, c’è chi si attrezza come può. “In mancanza di dati ufficiali e precisi abbiamo deciso che faremo un sondaggio tra i nostri 165 associati per capire come siamo messi”, spiega la Tonti. “Da sempre siamo i soggetti più deboli che lavorano in Parlamento, paria senza garanzie contrattuali per una precisa scelta degli onorevoli e degli stessi organi interni delle Camere che non danno seguito agli impegni assunti formalmente negli anni. Chiediamo semplicemente l’applicazione delle leggi che in queste aule i nostri datori di lavoro hanno approvato e standard europei in termini di diritti e di retribuzioni. L’ Associazione fa di questa lotta la sua ragion d’essere”.

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