A volte va così: fai gli ultimi bagni al mare e pensi con un po’ di tristezza a quando chiuderai l’ombrellone per l’ultima volta. Sfogli il giornale e leggendo una notizia parte una catena di pensieri e di emozioni. Mi permetto di condividerli con i pazienti lettori.

Capita che Selvaggia Lucarelli, su Twitter, scriva: “A guardare fb, gli italiani sono tutti in Grecia, in Thailandia e Formentera. Io tifo per quelli che fotografano gli arrosticini in Abruzzo”. Da lì a qualche ora è naturalmente inondata di foto.

Il quotidiano “il Centro” allora intervista la giornalista, la quale racconta delle sue origini abruzzesi, dei ricordi da bambina, dei nonni di Cupello, del mare vastese. Un’intervista molto bella, sentita e appassionata che fra le altre cose centra un paio di punti focali dell’“abruzzesità”: la sensazione d’impotenza da periferia dell’impero che a volte ti prende quando la vivi direttamente ma, allo stesso tempo, la nostalgia di quando sei lontano da questa terra.

Questo l’antefatto. Qui però parlerò, come sempre, di canzoni. Devo dire che ci sono brani di cantautori abruzzesi che descrivono molto bene queste sensazioni e la differenza col carattere della gente di fuori.

Meglio di tutti, l’Abruzzo l’ha cantato Ivan Graziani, per esempio in Lugano addio del 1977.

Teramano e abruzzese purosangue, Ivan immortala in maniera inarrivabile il distacco tra il dinamismo del mondo fuori regione e il magma provinciale. Nella canzone si rivolge a una certa Marta, descrivendone il padre combattente in montagna, evocando la canzone anarchica Addio a Lugano di Pietro Gori, mentre lui pensa al proprio padre, alla propria realtà conosciuta da ragazzo:

Tu, tu mi parlavi di frontiere
di finanzieri e contrabbando,
mi scaldavo ai tuoi racconti.
«Eh… mio padre sì – tu mi dicevi –,
quassù in montagna ha combattuto»,
poi del mio mi domandavi.
Ed io pensavo a casa,
mio padre fermo sulla spiaggia,
le reti al sole, i pescherecci in alto mare:
conchiglie e stelle,
le bestemmie e il suo dolore.

Dinamismo assoluto contro staticità assoluta, da una parte chi fa la storia, dall’altra chi la subisce; due luoghi dell’anima che parlano di radici in maniera differente.

La nostalgia per l’Abruzzo invece è descritta molto bene in un brano di Paolo Fiorucci, cantautore di Chieti, dal titolo Dorwinion, qui la ascoltiamo su arrangiamento e chitarra di Massimo Germini:

Si parla di una regione della Terra di Mezzo, famosa per il suo vino (altro vanto regionale oltre agli arrosticini è il Montepulciano d’Abruzzo), che procura sonni piacevoli e bei sogni a chi lo beve. Il vino crea l’incantesimo, i “carmina”, l’illusione anche solo del movimento.

L’abruzzese non parte mai veramente; di sghimbescio lascia sempre dietro di sé un filo per la strada del ritorno (d’altronde Dorwinion inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi Il filo di Arianna).

Anche Fiorucci, come Graziani, in un certo senso descrive la staticità della propria regione: Dorwinion è un nostos dell’anima, ma se l’autore dovesse riscrivere l’Odissea in abruzzese, l’Ulisse di Fiorucci non partirebbe nemmeno, e probabilmente non se ne renderebbe neanche conto.

Ricordati un filo di lana
per giocare allo sherpa sulla neve aquilana,
un filo di luna che sembra Majella,
la cima con gli occhi a portata di stella.
Raccogli al riparo di un filo di lino
la strada sgualcita che riempie un taccuino
e un filo di Arianna per perderti ancora e tornare da te.

In quest’ultimo ritornello esplode l’epifania, le istruzioni ataviche dei propri cromosomi, quelli che per esempio in Guccini, parlando della figlia, sono “corsari, di longobardi, di celti e romani” (Culodritto, 1987) e che coerentemente lo portano a spegnersi all’estremo nord, in L’ultima Thule (2012, l’ultima canzone in assoluto in carriera di Guccini). Quelli sono i colori dell’Emilia, totalmente pragmatica; Dorwinion ha il giallo del sole e di un fuoco scoppiettante, l’azzurro verdognolo e afoso, un padre fermo sulla spiaggia, un incanto con le reti al sole. In Abruzzo si torna al focolare, a un lago gigante trapunto di stelle come l’Adriatico, un grosso lago che s’illude d’essere un mare; in sostanza non si parte mai.

Le differenze con l’emiliano tipico sono quindi tante, di base però c’è una cosa immancabile: lo splendido e dignitoso provincialismo, che non è un’onta di cui vergognarsi, ma un tratto del carattere che tende a valorizzare e sovrastimare le proprie abitudini ancestrali e i propri luoghi della memoria. Fa immancabilmente parte dell’indole contadina che ancora – per fortuna – credo caratterizzi le genti d’Emilia e d’Abruzzo.

Un’ultima cosa. Selvaggia Lucarelli a un certo punto descrive un’altra caratteristica degli abruzzesi: “Intorno agli arrosticini c’è tutto un mondo che fa dell’ironia la propria forza. Gli abruzzesi hanno un grande senso dell’ironia. I piatti tipici ci sono in ogni regione, ma su nessuno esiste una terminologia comica come qui”. E qui torna ancora Ivan Graziani, il suo stile diretto da rocker dissacrante e peperino. È proprio vero: una caratteristica che l’abruzzese rivendica spesso è il ciarpame ironico, festoso ed empatico, per alcuni grossolano, zotico o cafone, ma – per chi non ha particolari problemi con le proprie frustrazioni – semplicemente genuino. Tutto molto vero.

Bene, grazie per la pazienza di chi è arrivato fin qui.

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