Che questa fosse la fine della crisi dello “Stato crisi” del capitalismo lo avevamo capito tutti. E’ finita l’epoca in cui la crisi serviva ad agevolare i processi di ristrutturazione. Questa è piuttosto la fine delle crisi usate e pilotate e l’inizio della crisi come status permanente. Ma i libri dove trovare spiegazioni chiare non sono stati ancora scritti e quindi siamo costretti a leggere direttamente sui libri umani, nelle infinite storie, le spiegazioni su questa crisi. Così in qualsiasi stazione ferroviaria possiamo imbatterci in storie come quella di Marino e Gino nelle quali troviamo tutte le risposte che cerchiamo.

Marino, un nome una destinazione obbligata, sommozzatore di professione con il volto scavato come uno scoglio ed i capelli racchiusi da un codino latino americano. Una vita sott’acqua fino al quel maledetto giorno. Il fratello muore in un incidente aereo in Brasile con un volo dell’Air France. Le sue spoglie si perdono nell’oceano Pacifico. Da allora ogni volta che si immerge Marino vede il volto di suo fratello salire dalle profondità; tutte le volte, fino a quando decide di non entrare più in acqua perché dolore e disperazione si sono ormai impadronite della sua anima. Mi dice che ha subito un blocco fortissimo e che da allora tutto si è fermato, andando a rotoli. Non riesce a trovare una occupazione alternativa e cominciano i guai. Una moglie ed un figlio da sostenere, l’affitto da pagare, i primi segnali, la riduzione della corrente per le bollette non pagate. Poi lo sfratto esecutivo, moglie e figlio parcheggiati definitivamente dalla suocera dove non c’è posto anche per lui. L’inizio dell’inferno: i centri di accoglienza, la mensa della Caritas, le associazioni di volontariato che prendono la retta per lui, gli amici che l’aiutano all’inizio ma poi svaniscono, i lavoretti che alla fine scompaiono ed alla fine due camicie un pantalone in una busta ed una montagna di cartoni alla stazione. In una sala d’attesa perenne dove incontra altri compagni di viaggio.

Gino lavorava in una fabbrica di cartoni, ironia della sorte. A 50 anni non lo prende nessuno a lavorare e la moglie che deve badare ai suoi figli si separa da lui. Finita la cassa integrazione e la mobilità, finita l’attenzione dei servizi sociali, resta solo quella stazione. A pochi passi dalle loro case normali di prima. Non resta che quell’ingegnoso letto a castello che si sono creati nello sportello della biglietteria ormai chiusa da anni. I cartoni come materasso ed una busta con magliette dentro come cuscino. “Siamo invisibili”, mi dicono senza perdere dignità. “La gente che passa ci guarda e fa finta di non conoscerci, ci guarda come Zombie”. Eppure sono lì, mattina e sera aspettando un treno che non arriverà mai. “Mangiamo solo una volta al giorno alla Caritas, a mezzogiorno, ma poi la sera?”. Nei centri di accoglienza finanziati dal Piano di Zona non li vogliono più perché un giorno si sono lamentati di cibi e bevande scadute. Le assistenti sociali gli frappongono un muro perché non sono incasellati in nessuna emergenza: state in stazione non avete diritto a contributi per l’abitazione. Invisibili appartenenti alla categoria: uomini sull’orlo della crisi.

Non sono tossici o alcolizzati e non hanno precedenti penali, per cui non rientrano nelle cooperative sociali di tipo B. Sono uomini e basta, che vivono su giacigli di cartone. La mattina la barba nel bagno delle ferrovie e poi sono solo treni che passano, gente che transita e quel campanello, quel trillo che segnala treno in arrivo che è ormai diventato la colonna sonora della loro vita. Anche questa è vita sembrano dirci questi invisibili, ai quali non giunge nessun premio di 80 euro, nessun Tfr, indifferenti al fatto che ci sia o meno il Senato, le Province o una legge elettorale con qualsiasi nome. Sono forse una infinitesimale parte di quei 2 milioni di poveri italiani che aspettano pazienti un treno in una delle tante stazioni di questo Paese.

Sulle loro storie abbiamo girato un documentario intitolato ‘Gli invisibili’: qui le prime immagini. 

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