Come una grande matrioska che a ritroso apre parabole e chiude semicerchi, come un incastro di pezzi e supplizi, di sciarade e compromessi, letterari e metaforici, l”Alcesti’ di Massimiliano Civica, (regista sottovalutato, dopo la direzione al Teatro della Tosse genovese e l’Ubu per ‘Il mercante di Venezia’, tornato alla ribalta con “Soprattutto l’anguria” un paio di stagioni fa), che si imbatte ed esplode nello scenario delle vecchie carceri fiorentine delle Murate, si candida ad essere la pièce più interessante, ed apriscatole, dell’anno. Anche il contesto fa il testuale e lo circonda, lo protegge, gli permette quell’isolamento concettuale e fisico dall’altrove. Minimalista come suo costume Civica (sua anche la traduzione) ha pulito, sottratto, tolto fino ad arrivare al nocciolo, all’essenza, al midollo, allo scheletro, ritrovandosi in mano questa materia euripidea ancora calda e viva, millenaria ed universale, bollente che ancora batte e pulsa, cerca strade, foraggia riflessioni, apre contraddizioni senza soluzioni se non l’attivazione di processi mentali, di concatenazioni di causa ed effetto.

Nato dalla preziosa collaborazione tra il gruppo Atto Due e Fondazione Pontedera Teatro, progetto germogliato due anni fa, e per un mese in scena, cosa più unica che rara non solo nella città del premier Renzi, per venti spettatori a replica che assistono ad un rito ancestrale, una messa antica di eroi pagani e Dei vendicativi, di sentimenti che legano la bocca dello stomaco, di macerie e minuzie che esaltano la catarsi dell’esistenza. Sopra la platea a emiciclo quattro piani di celle che si affacciano a ringhiera in questo silos di grate ad imbuto, come entrare negli inferi, come scendere nel budello del vulcano, dell’Ade del non ritorno. Apollo punito da Zeus è costretto sotto mentite spoglie a fare da servo al padrone Admeto, colpito a sua volta da una maledizione. Admeto morirà se non troverà qualcuno disposto a spirare al suo posto. I suoi anziani genitori declinano l’“offerta”, allora si propone la moglie Alcesti che si immola per salvare l’adorato marito. Ercole, amico di Admeto e da questi accolto, scenderà negli Inferi e recupererà quella che si crede possa essere la moglie.

Questo la storia, questo l’antefatto. Saltano subito alla mente le recenti vicende delle ragazze curde che si fanno esplodere per difendere la loro postazioni contro l’avanzata dell’Isis. Ma il tema è più profondo: qui la donna rievoca il suo ruolo archetipico di madre generatrice che dona la vita, salvandola, nuovamente, immolandosi partorisce e dà alla luce, sottraendolo alle tenebre. Caratteristica di questo lavoro (multistratificato e multitasking) è la presenza di quattro (grandi nella loro diversità) attrici che, con grazia, precisione, puntualità, rigore, regalano un insieme felice.

Come i cassetti a scomparsa, tra i pochi oggetti di scena, l’incedere drammaturgico è una scoperta che ribalta i piani e rimescola continuamente le carte in gioco: Daria Deflorian è millimetrica, leziosa e semplice nei passaggi da Apollo ad Admeto, al servo che sciorina il suo veneto da commedia dell’arte, Monica Piseddu, efebica, essenziale, una lunga virgola che impartisce tempi e scandisce un ritmo tra l’accorato ed il distante, è la Morte, una serva che declina i suoi pensieri in sardo, è Alcesti stessa, struggente e delicata, mai paradossale né patetica, è Ercole, è il padre di Admeto che si rifiuta di morire per il figlio, Monica Demuru, per inquadrarla basterebbe il canto a cappella (e qui il sacro vola altissimo) della pagana musica di Lucio Dalla che strappa pelle d’oca nel limbo del carcere che qui si fa gabbia ma anche passaggio, fino alla danzatrice Silvia Franco, la donna velata che Ercole, spacciandola (fede o verità?) per Alcesti, riconsegna al marito Admeto.

Le maschere, costruite da Andrea Cavarra, con il calco sul volto delle protagoniste, bianche, grigie, rosse e nere, filologicamente coordinate, sostengono una recitazione funzionalmente fissa e ferma, immobile e lentissima, concentrata su piccoli movimenti e gesti al microscopio. Ci sono alcuni passaggi, il dialogo tra una Alcesti che va a morire per salvare il marito Admeto senza alcun risentimento, ma anche senza rassegnazione né obbligo di inferiorità o sudditanza del coniuge. Admeto che sembra egoista ed addirittura all’amata che si sacrifica per lui riesce a dire: “Non tradirmi, non osare abbandonarmi, se mi lasci io non esisto”. Ma i nodi si sciolgono nel balsamo del sentimento più alto, del non-isolamento, del non salvarsi-da-soli.

L’affilato scontro dialettico del padre che spiega, con forza e decisione, che non vuole morire al posto del figlio, è uno schiaffo, una presa di coscienza e di responsabilità dei figli nei confronti dei genitori, un padre che dice “La vita è bella” e imputa al figlio di aver condannato a morte la moglie con il suo squallido individualismo egotico. I silenzi che si amplificano, le attese vertiginose, le pause languide non fanno altro che alimentare il senso di pace ed il bisogno d’amore del quale tutti siamo mancanti e deficitari, in crisi d’astinenza perenne. Una commozione che nasce dall’arte ed arriva a toccare corde profonde, scrigni nascosti, anfratti celati nel passato, nei desideri di ogni spettatore. “Io credo nell’amore, l’amore di chi ci ama e non ci vuol lasciare. Io credo che il dolore, è il dolore che ci cambierà. Io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà” (“Henna”, Lucio Dalla).

 

 

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