Per capire l’enormità di quello che è successo a Nicole, la transessuale MtF che nel giorno del suo funerale è stata abbigliata in abiti maschili, porrò alcuni interrogativi utili a inquadrare il fatto nella sua importanza: cosa direbbe un tifoso di una squadra di calcio di fronte alla prospettiva di essere messo nella bara con la maglia di una squadra rivale e magari tanto odiata? O cosa potrebbe accadere se un fervente cattolico venisse acconciato così come previsto da un’altra religione? Cosa direbbero amici e familiari se venissero violate le identità di chi, ormai senza più vita, non può fare valere le ragioni delle proprie scelte?

Per quanto riguarda Nicole non si è trattato di disattendere una fede – calcistica o religiosa, poco importa – ma di violare la dignità di qualcosa che preesiste, se vogliamo, a qualsiasi costrutto umano: il proprio io, l’identità di cui è capace, la percezione del sé e della realizzazione della propria vita.

Viviamo in un paese in cui le persone transessuali vengono trattate come mostri sia dall’opinione pubblica, sia dalle istituzioni. Soprassederò su battute e semplificazioni, per cui “trans” molto spesso è sinonimo di prostituzione. Il transessualismo – ci fa notare la giurista Anna Lorenzetti, nel suo libro Diritti in transito – è ancora inserito nel DSM nell’ambito delle patologie mentali e la legge prevede che esso venga “curato”, tuttavia, attraverso un intervento chirurgico. Basta solo questo paradosso per capire l’insufficienza di un provvedimento giuridico che andrebbe ripensato integralmente.

Contrariamente al resto della popolazione, la persona trans per essere riconosciuta nella sua identità sessuale non può scegliere, ma è costretta a ricorrere al percorso medico, molto spesso doloroso e con un grave impatto sul benessere psichico di chi vi si sottopone.

Di fronte a tali evidenze, la decisione della famiglia di Nicole di non rispettare l’identità della figlia – che sicuramente in passato è stata un uomo, ma la cui anima era femminile e che aveva fatto di tutto per diventare come sentiva di essere – rappresenta un duplice insulto.

Innanzi tutto all’identità della persona, alla sua autodeterminazione e al rispetto dei legami di parentela. La famiglia dovrebbe tutelare chi la compone, non imporre la sua visione. Altrimenti non è famiglia, è abuso. E in secondo luogo, questa scelta va contro l’evidenza scientifica. Il nuovo DSM, infatti – ci ricorda sempre Anna Lorenzetti – dichiara che il malessere legato alla condizione delle MtF e degli FtM non va ricercato nella transessualità in quanto tale, ma nel fatto che la società non riconosce l’identità trans. Con la decisione di far tornare in abiti maschili Nicole, la sua famiglia non ha fatto altro che consolidare quella sfera di pregiudizio e di intolleranza che genera infelicità per migliaia di persone.

Concluderò ricordando lo splendido personaggio di Agrado, nel film di Almodovar Tutto su mia madre, che dichiara ad un certo punto: “Quel che stavo dicendo è che costa molto essere autentiche, signora mia, e in questa cosa non si deve essere tirchie, perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha di se stessa.”

Si è tanto più veri/e quanto più si è come si vuole. Quest’evidenza sfugge, purtroppo, a chi obbedisce all’artificio dell’occhio sociale e delle sue convinzioni. Pazienza se a rimetterci sono ancora le identità, le aspirazioni e i sogni delle frange più fragili del nostro tessuto sociale.

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