L’austerità è sul punto di compromettere il futuro delle nuove generazioni di ricercatori in paesi come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro: ampie coorti di giovani talenti scientifici sono ormai costretti ad abbandonare i propri studi o ad emigrare. Accentuando un problema che colpisce fin dalla sua nascita lo spazio europeo: lo sviluppo scientifico molto squilibrato degli Stati membri dell’Ue. Che sta alla base della forbice economica tra il nord e il sud Europa.

Per discutere di queste problematiche la scorsa settimana a Copenaghen si è svolta una conferenza internazionale (Esof-2014), con lo scopo di mettere a confronto scienziati e politici per discutere in maniera aperta di temi cruciali per il futuro dell’Europa. L’incontro è stato organizzato dall’associazione Euroscience, e ha visto la partecipazione di scienziati dei paesi dell’Europa meridionale, insieme ad esponenti dei governi e delle istituzioni europee.

Il taglio a Ricerca e Sviluppo (R&S) attuato da molti dei paesi dell’Europa meridionale è una reazione sbagliata alla crisi economica: nessuno di questi Stati ha infatti  seguito l’esempio della Finlandia che dopo il crollo dell’URSS ha subito un collasso dell’economia che è stato affrontato tagliando la spesa pubblica in tutti i settori eccetto R&S. Si è distinto, in quel caso, tra quantità e qualità della spesa pubblica, un aspetto troppo spesso dimenticato dai “liberisti” di casa nostra che hanno come unica proposta il taglio alla spesa pubblica, a qualsiasi scopo essa sia indirizzata, per raggiungere l’unico obiettivo che interessa davvero, il taglio delle tasse e la privatizzazione dei servizi fondamentali.

Si tratta dunque di distinguere tra quantità e qualità della spesa. I cosiddetti paesi Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) negli ultimi 30 anni hanno investito troppo poco in ricerca e sviluppo (circa la metà rispetto, ad esempio, alla Germania).

Dal 2008 in poi questo ritardo è cresciuto. Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca e sviluppo è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Anche nel campo della ricerca è in atto un trasferimento di risorse finanziarie e umane dai paesi dell’Europa meridionale a quelli dell’Europa settentrionale. Un trasferimento che amplia la forbice tra le due Europa e inibisce ogni speranza di ripresa.

L’Italia fa parte a pieno titolo di questo club di Paesi destinati al declino. Con un’aggravante: mentre Grecia, Spegna e Portogallo hanno tagliato la spesa in R&S dopo la crisi economica, in Italia queste politiche sono state messe in atto ancor prima. L’Italia spende per l’università, rispetto al PIL, circa la metà (0,7 %) di quanto fanno gli altri paesi  dell’Europa a 27 (EU27) e un terzo rispetto ai paesi del Nord Europa: questa spesa è rimasta all’incirca costante nell’ultimo quindicennio. A fronte di questa situazione, l’impatto della crisi economica sulla spesa pubblica in istruzione è stato quello di giustificare un taglio di un 20% circa tra il 2008 e il 2010.

Il governo Berlusconi ha rivendicato questa scelta autodistruttiva: «Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?», disse qualche anno fa l’allora Cavaliere. La stessa visione è stata poi condivisa dai governi che sono seguiti (Monti, Letta e, per ora, Renzi) che, infatti, non hanno invertito la rotta ma piuttosto hanno continuato una politica di tagli indiscriminati riguardo questi settori. Luigi Zinagles, uno dei più ascoltati economisti del Paese, ha riassunto così l’atteggiamento messo in atto dalla politica verso la ricerca: «L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché le nostre università non sono a livello; ma con un miliardo e mezzo di cinesi e mezzo miliardo d’indiani che vorrebbero visitare il nostro paese, l’Italia ha un futuro nel turismo». No comment.

Di queste scelte autodistruttive, che condannano il Paese alla marginalizzazione tecnologica e quindi economica, c’è chi si avvantaggia. Le risorse umane e le infrastrutture di ricerca che ancora funzionano e sopravvivono nonostante l’accanimento di quasi un decennio saranno ben utilizzate dai Paesi che continuano a fare una politica nazionale della ricerca. Sono gli Stati dell’Europa settentrionale ad avvantaggiarsi del brain drain del nostro Paese. Lo stesso fenomeno sta avvedendo, seppur per ragioni diverse, in Grecia, in Spagna e in Portogallo. Anche perché,  all’interno di ciascun Paese, questo crollo della Ricerca avviene mantenendo i privilegi di una classe accademica che qualche volta ha attivamente collaborato affinché tutto questo avvenisse, e più spesso ha deciso di rinchiudersi in una colpevole inazione. Una classe in decadenza, vieppiù anziana, destinata a fuoriuscire dal sistema entro un decennio,senza lasciare dietro di se una classe dirigente adeguata a prendere in consegna un Paese che sta smantellando le sue possibilità di futuro.
A pagare il conto saranno le giovani generazioni. La scelta per i giovani scienziati è tra l’emigrazione verso l’Europa settentrionale e verso gli Usa o rimanere in patria con improbabili contratti della durata di pochi mesi, che fra l’altro comportano una perdita dell’indipendenza scientifica (che per un ricercatore è l’unica ragione di essere). Oppure abbandonare le attività di ricerca per ripiegare su occupazioni che certo non mettono in risalto le capacità acquisite nell’alta formazione.

Anche le proposte in campo non sembrano poter invertire questa tendenza, né basterà escludere la spesa in R&S dal calcolo del deficit. L’unica vera possibilità che s’intravede all’orizzonte è che ci si renda conto che l’Europa ha bisogno di una politica comune della ricerca. Per farlo basterebbe rispettare i trattati. Come quello di Lisbona, che imponeva agli Stati membri di portare al 3% la spesa in R&S. Un obiettivo che dovrebbe essere vincolante tanto quanto il  “fiscal compact”.

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