Procedure farraginose, lungaggini burocratiche, incertezze interpretative, scarse garanzie per il futuro. I programmi pensati dagli ultimi governi per il rientro dei cervelli si sono rivelati nella maggior parte dei casi dei veri e propri flop. “Non basta offrire agevolazioni fiscali o stipendi più alti per far tornare in Italia i talenti fuggiti all’estero – spiega Pierpaolo Giannoccolo, docente di economia all’università di Bologna, esperto di brain drain – bisogna dare ai ricercatori che tornano la possibilità di portare avanti i loro progetti e crescere all’insegna della trasparenza e della meritocrazia“. E questo in Italia non accade, tanto che dopo pochi anni sono molti i cervelli rientrati che si pentono e fuggono di nuovo oltreconfine. Non solo: “All’estero i paesi avanzati discutono di brain circulation – continua Giannoccolo – mettono a punto strategie per attirare i migliori talenti internazionali, perché sanno che è l’unico modo per competere sui mercati. In Italia proviamo soltanto a far rientrare i nostri dopo che sono fuggiti. E neanche ci riusciamo”.

RIENTRO DEI CERVELLI Dodici anni di scarsi risultati. Il primo programma per il rientro dei cervelli venne varato nel 2001 dall’allora ministro dell’Università, Ortensio Zecchino. Il decreto ministeriale 13/2001 garantiva incentivi agli atenei che offrivano contratti dai 6 mesi ai 3 anni a “studiosi ed esperti stranieri o italiani impegnati in attività didattica e scientifica all’estero da almeno un triennio”. Finanziato con 40 miliardi di lire ogni anno (20 per gli stipendi, 20 per i progetti di ricerca) per il 2001, 2002 e 2003, il piano “Rientro dei cervelli” impegnava gli atenei a fornire adeguate strutture di accoglienza e supporto all’attività dei ricercatori e il ministero era chiamato a offrire ai docenti un trattamento economico adeguato ai livelli europei. E’ durato fino al 2006, anno in cui il governo Berlusconi ha smesso di finanziarlo, e i suoi effetti sono stati deludenti: “Sarebbero rientrati in Italia solo 466 cervelli (di cui circa 300 italiani)”, si legge nel rapporto Brain drain, brain exchange e brain circulation. Il caso italiano nel contesto globale, pubblicato nel 2012 dall’istituto Aspen, a fronte del fatto che “i ricercatori italiani all’estero sono tra i 40 e i 50mila”. E di un esodo che in un decennio ha riguardato oltre 10mila ricercatori.

PROGRAMMA MONTALCINI – Nel 2009 il programma di Zecchino ha cambiato nome in “Giovani ricercatori Rita Levi Montalcini“, ma in termini di risultati è andata anche peggio. Lanciato in pompa magna, la sua applicazione negli anni è stata lenta e farraginosa. Il bando 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale solo il 28 Febbraio 2012; il comitato preposto alla valutazione delle candidature è stato nominato il 10 settembre dello stesso anno, ha iniziato i lavori il 17 Dicembre 2012 e li ha conclusi solo il 21 Febbraio 2013, ma il decreto ministeriale con i nomi dei 24 vincitori è arrivato solo il 5 agosto 2013. Nel frattempo i finanziamenti sono scesi da 6 a 5 milioni di euro e gli anni di contratto sono passati da 6 a 3. Ovviamente l’appeal del progetto è scemato: se nel 2009 erano state 363 le domande per i 31 posti disponibili, nel 2010 le prime erano scese a 81 a fronte di 24 posti. Per il 2011, invece, sul sito dell’istituzione non c’è traccia del bando: il provvedimento di assegnazione non è stato mai scritto e i 5 milioni sono tornati nelle casse dello Stato. Ancor più deludenti sono stati i risultati: poiché solo i bandi 2009 e 2010 hanno concluso il loro iter, in 4 anni il programma ha riportato in Italia solo 55 ricercatori.

CONTRATTI IN SCADENZA E LUNGAGGINI BUROCRATICHE – Ora molti cervelli rientrati vivono nell’incertezza: sono in scadenza di contratto e attendono di conoscere il loro futuro. Poiché il ministero non fa concorsi dal 2008, per i più bravi è prevista la possibilità della chiamata diretta in ruolo, ma le procedure di valutazione sono state lunghissime: dal giugno 2012 per 59 domande sono state create 50 diverse commissioni perché i candidati lavorano in aree disciplinari diverse: alcune prima dell’estate 2013 non si erano nemmeno riunite.”Prima di procedere alle chiamate, il ministero doveva attendere che tutte le commissioni emettessero il loro parere – spiega Elisa Greggio, biologa dell’università di Padova, tornata nel 2009 dagli Usa con il “Rientro dei cervelli” – ad agosto è uscito il decreto di ripartizione del Fondo ordinario, che snellisce le procedure: ora appena la commissione si è espressa, il ricercatore può essere chiamato”. Positivi i risultati: “Alcuni sono già entrati in ruolo”. Ma Greggio come molti colleghi ha un contratto in scadenza nel 2014: “L’ateneo ha fatto da tempo domanda per la mia chiamata: ora spero che il parere arrivi in tempi brevi. Altri di noi nel frattempo sono tornati all’estero”.

LEGGE CONTROESODO – Ma l’esigenza di far tornare in Italia i talenti migliori non riguarda solo gli accademici. La legge 238/2010, la cosiddetta Legge Controesodo, venne pensata per favorire il rientro di laureati under 40 di ogni tipo, residenti all’estero da almeno tre anni per ragioni di studio o lavoro: per tre anni dal rientro si pagheranno le tasse solo sul 30% dello stipendio per gli uomini e sul 20% per le donne. Neanche in questo caso sono mancati problemi. Arrivato in Parlamento come progetto di legge nel dicembre 2008, il testo ha ottenuto l’ok definitivo a dicembre 2010. Gli ultimi decreti attuativi sono stati emanati solo il 7 giugno 2011, ma la legge non era chiara, così per fugare le incertezze interpretative si è dovuto attendere la circolare dell’Agenzia delle Entrate numero 14/E del 4 maggio 2012. Nonostante la lentezza, qualche risultato è arrivato: “Nel 2011 ha stimolato il ritorno di circa 4 mila persone, in maggioranza donne – spiega Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano – ora bisogna vedere se riusciranno a restare in Italia”.

COSA FANNO LE REGIONI – Una minima progettualità in questa direzione dimostrano di averla le Regioni, che “si stanno muovendo per accompagnare il controesodo – continua Rosina – e danno la possibilità di ottenere ulteriori finanziamenti a chi mette in piedi un’attività imprenditoriale”. E’ il caso dei progetti WelcomeTalentBusiness e Alimenta2Talent lanciati dalla Lombardia e di Brain back Umbria nell’omonima regione. Più strutturato il progetto Master and Back Sardegna: nato nel 2005, il piano finanzia master universitari nelle università straniere per i giovani del territorio e prevede contributi a enti e aziende per incentivare l’assunzione dei laureati che rientrano dall’estero. Fino al 2012 erano state erogate “circa 3.500 borse di studio per la formazione e concessi quasi 1.500 finanziamenti per i percorsi di rientro (totale: 150 milioni di euro)”, si legge nel rapporto dall’istituto Aspen.

“SOLO LEGGI SPOT, MANCANO LE STRATEGIE” – Il problema principale è far sì che chi torna non vada via di nuovo. “Nel caso dei ricercatori universitari – conclude Giannoccolo – quelli che rientrano devono essere messi in condizione di fare ricerca, di crescere, altrimenti prima o poi decideranno di tornare all’estero. E questo non si fa con i provvedimenti spot che abbiamo visto finora, ma con una strategia”. Quale? “Serve un maggiore collegamento tra le università e il tessuto produttivo, innanzitutto. Un esempio: il governo può decidere che l’Emilia Romagna diventi la regione leader nella produzione di pannelli solari. Per questo farà in modo che gli atenei richiamino dall’estero studiosi che fanno ricerca in materia; al contempo darà incentivi e sgravi fiscali ai produttori della regione perché migliorino le loro aziende. Lo Stato rinforzerà, cioè, il legame tra atenei e realtà industriali, in modo da creare un circolo virtuoso. Ma per fare questo servono investimenti e idee: finora si è visto molto poco”.

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