“Ho sempre amato correre: è qualcosa che puoi fare contando soltanto su te stesso, sulla forza dei tuoi piedi e sul coraggio dei tuoi polmoni”. Così parlò Jesse Owens, atleta sopraffino ricordato dalla storia anche e soprattutto perché rovinò i piani del Fuhrer di fare delle Olimpiadi di Berlino 1936 un manifesto della superiorità della razza ariana. Jesse Owens, all’anagrafe James Cleveland Owens, nasce esattamente cento anni fa, il 13 settembre 1913 – nel giorno in cui oggi l’atletica celebra anche il doveroso tributo al record del mondo del compianto Pietro Mennea – in un paesino dell’Alabama, da una famiglia in cui i nonni erano stati schiavi nelle piantagioni di cotone e i genitori lavoratori liberi nelle stesse piantagioni. La sua è la storia del campione che umilia Hitler e al tempo stesso dell’uomo che è vittima di quel razzismo che negli Stati Uniti sopravvive ben oltre l’abolizione ufficiale della schiavitù: se la leggenda vuole che fu Hitler a negargli il saluto, la storia certifica che fu Roosevelt a umiliarlo negandogli il doveroso tributo.

Come atleta Owens si rivela al mondo nel 1935 quando, ancora studente, in un meeting universitario di atletica nel Michigan riesce ad abbattere quattro record del mondo nel giro di un’ora. In un pomeriggio riesce a metter in fila il record mondiale nelle 100 yards, nelle 220, nelle 220 a ostacoli e nel salto in lungo: superando qui anche il limite fino allora invalicabile degli otto metri. Una performance incredibile, che nessuno sarà mai in grado di ripetere. Ma quell’anno il premio di miglior atleta degli Stati Uniti lo vince Lawson Little, giocatore di golf. Bianco. Ennesima umiliazione di un ragazzo costretto a lottare ogni giorno contro i pregiudizi, a sposare una donna bianca, si dice, solo perché sono stati fotografati insieme e altrimenti la reputazione della donna sarebbe irrimediabilmente perduta. L’anno dopo la sfida è ancora più grande, non ci sono solo gli avversari da sconfiggere in pista, ma la tragica teoria della superiorità razziale dell’uomo bianco, che nella Germania nazista è spinta oltre ogni limite.

Sono le Olimpiadi di Berlino 1936, il fiore all’occhiello del Terzo Reich, la dimostrazione della geometrica potenza dell’impero del Fuhrer. La geniale regista Leni Riefenstahl, incaricata di tradurre su celluloide la presunta superiorità ariana, lo fa attraverso innovative riprese dal basso a esaltare il fisico dell’atleta, piani lunghi che della massa danno l’idea di una unità compatta. Ma nel grandioso film Olympia, per qualche secondo, a fianco del campione tedesco Luz Long appare una sagoma nera. E’ quella di Jesse Owens, che in quei Giochi della razza, che nessun paese democratico si degna di boicottare, se non la Barcellona ancora libera e repubblicana, riesce a vincere ben quattro medaglie d’oro: 100 metri, 200 metri, staffetta 4×100 e salto in lungo. In tutta la storia solo Carl Lewis riuscirà a eguagliarlo, mezzo secolo dopo, a Seul 1988.

Proprio nel salto in lungo è l’immagine più bella, con l’ariano Long che spiega a Owens le caratteristiche della pedana e lo aiuta a vincere, arrivando secondo. “Le amicizie nate sul campo durante le gare sono le vere medaglie d’oro in una competizione, i premi col tempo si consumano, mentre le amicizie non si ricoprono di polvere”, scrive anni dopo Owens nella sua autobiografia, dedicando queste parole proprio a Long. Questo è il ricordo a lui più caro dell’intera Olimpiade, dove per il resto sarà strumentalizzato da ogni parte. A lungo si è parlato di un Hitler schifato, che lascia la tribuna dopo la sua vittoria, e che si rifiuta per quattro volte di stringere la mano del vincitore. Non è andata proprio così. Il Fuhrer già in occasione di una precedente vittoria di un afroamericano si è rifiutato di stringergli la mano, e quindi si è accordato con il Cio per salutare tutti con un cenno, bianchi e neri.

Lo racconta lo stesso Owens, sempre nell’autobiografia, scritta per racimolare qualche soldo in una vita che dopo lo sport gli ha regalato solo emarginazione e povertà (morirà il 31 marzo 1980 a Tucson). Come scrive che il vero razzismo, da tutti sottaciuto, soprattutto dai media di quelle stesse democrazie che alla festa del nazismo avevano partecipato, è quello del presidente statunitense Roosevelt, che nonostante le promesse e il doveroso protocollo qualche mese dopo si rifiuta di invitare alla Casa Bianca il pluricampione olimpico, e uno dei più grandi atleti di sempre. L’incontro, le strette di mano e i flash dei fotografi furono tutti per il presidente Roosevelt e per Glen Morris, oscuro vincitore del decathlon a Berlino. Bianco.

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