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Bin Laden, il vigile e la farsa pachistana

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La verità è spesso più farsesca dell’immaginazione. Il documento finale della commissione d’inchiesta istituita dal Pakistan per capire come si è arrivati all’umiliante – per Islamabad – raid Usa che il 1° maggio 2011 portò all’uccisione di Bin Laden può essere una buona sceneggiatura per un cartoon graffiante e irriverente alla Simpson o South Park.

Nelle 336 pagine rese pubbliche da al-Jazeera si spiegano i fallimenti dei servizi segreti pachistani – difficile pensare che alcuni non siano stati voluti, avendo a che fare con il più influente e ramificato servizio segreto del mondo – nei 10 anni di presunta caccia al nemico pubblico numero 1 (degli Usa, certo non del Pakistan). Nel documento rivelato dal network arabo si legge che qualche tempo dopo il suo arrivo in Pakistan dai territori tribali di confine con l’Afghanistan – siamo nel 2002 – Bin Laden fu fermato su un’auto per eccesso di velocità insieme a una delle mogli e un luogotenente, ma nessuno lo identificò (o forse fu in grado di diramare l’allarme). Dopo 3 anni ad Haripur con tutta la famiglia, si trasferì ad Abbottabad, dove visse indisturbato per 6 anni prima di essere fatto fuori dal raid dei Navy Seals. In quegli anni Osama usciva regolarmente di casa mettendosi in testa un cappello texano per non farsi riconoscere dai satelliti (come quelli della Nsa assurti a notorietà con il Datagate); per il resto il potente servizio segreto Isi non ha disturbato il suo soggiorno.

Ma la Commissione Abbottabad, pur parlando di “disgrazia nazionale” mette l’accento, più che sulle inefficienze degli 007 di casa, sullo smacco e l’umiliazione di essersi fatti infiltrare dalle squadre speciali Usa. Ma anche questa alla fine sembra una verità di comodo che copre i giochi che i servizi dei due paesi – ufficialmente alleati e che si detestano cordialmente – continuano a interpretare per continuare ad avere mano libera nell’area.

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