“Nel sesto anno della crisi più lunga e più grave del secolo la mia opinione è che gli sforzi ideativi e pratici del governo e delle forze politiche di sinistra dovrebbero concentrarsi sul ‘lavoro di cittadinanza’ piuttosto che sul ‘reddito di cittadinanza’, anche per l’ovvio motivo che dal ‘lavoro di cittadinanza’ scaturirebbe naturalmente un reddito decente, mentre dal ‘reddito di cittadinanza’ non è detto che scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente”.
Così inizia un articolo di Laura Pennacchi – sottosegretario di Stato al Tesoro nel primo governo Prodi, iscritta al Pd e docente di Economia a Roma – pubblicato sul sito Sbilanciamoci.info, dall’eloquente titolo “Lavoro, e non reddito, di cittadinanza”.

Sottolineiamo malvolentieri questa affermazione perché riporta un modus pensandi sul mercato del lavoro che, piaccia non piaccia, rimanda al secolo scorso. Nulla infatti oggi garantisce che da un lavoro di cittadinanza possa scaturire un reddito decente, anzi negli ultimi 30 anni di costante e crescente precarizzazione e svalutazione del lavoro e della vita, troppe volte abbiamo visto come l’attività lavorativa spesso non consente di aspirare a una vita decente. L’idea che il problema della precarietà (che la crisi trasforma sempre più in disoccupazione) possa essere risolto soltanto attraverso interventi dal lato della produzione e incentivando nuove assunzioni tramite varie forme di agevolazioni  ha fatto il suo tempo. Di fronte ad aspettative negative sulle vendite future in presenza di contrazione del reddito e dei consumi, le imprese, anche di fronte a livelli salariali infimi o alla possibilità di un lavoro a basso costo “usa e getta”, non hanno interesse ad aumentare la domanda di lavoro. E non può essere sicuramente lo Stato – tramite forme di coazione a “lavori socialmente (in)utili” (al di là della funzione di controllo sociale e dipendenza assistenziale che viene esercitata) – a poter invertire questa dinamica. 

E’ invece più praticabile e meno costoso per la collettività garantire una continuità di reddito incondizionato (ovvero non mascherato da obblighi comportamentali di dipendenza e sottomissione). Tale misura consente infatti di ottenere un duplice risultato economico: da un lato, un aumento del potere d’acquisto che può favorire un incremento di domanda e per questa via trascinare investimenti e occupazione; dall’altro, una liberazione di potenzialità di lavoro, in linea con le aspettative e i desideri individuali, che oggi sono alla base di quelle economie di apprendimento e di rete, le uniche in grado di far aumentare la produttività sociale. E’ quindi più probabile che da un reddito di base possano nascere condizione più favorevoli per un lavoro decente.

Questa consapevolezza non deriva da analisi puramente teoriche ma è frutto della pratica concreta che come San Precario abbiamo maturato e sedimentato in anni di azione di contrasto e superamento della precarietà dentro la precarietà. Dopo i precedenti appuntamenti dell’Accademia Precaria delle scorse settimane, in cui si è analizzato la forma e il finanziamento della proposta di reddito di San Precario, è venuto quindi il momento di affrontare l’aspetto più militante e politico di tutta la faccenda. Attraverso quali esperienze nasce la proposta? O meglio ancora: in che modo il reddito di base incondizionato interagirà con le nostre esperienze di vita e di lavoro e sarà in grado di migliorare il mercato del lavoro e farci uscire dalla crisi che stiamo vivendo?

Accademia Precaria: Reddito e storia
13 giugno alle 21.00
Piano Terra – Milano, Via Confalonieri 3, Q.re Isola, Metro Linea 2 (f.ta
Garibaldi, uscita Via Pepe)
https://www.facebook.com/events/144891005696802/
http://www.precaria.org/accademia-precaria-reddito-e-storia.html

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