Tra le tante cause di fatale degrado del patrimonio storico e artistico della nazione italiana ce n’è una assai poco analizzata e dibattuta: la violenza con cui il ceto politico si appropria di musei, biblioteche ed enti culturali, calpestando, con ostentato disprezzo, ogni criterio di competenza, merito, trasparenza.

La clamorosa vicenda della Biblioteca dei Girolamini a Napoli è un esempio da manuale. Comunque finiscano le indagini dei carabinieri del Nucleo di Tutela del Patrimonio artistico e della Procura, ce n’è abbastanza per delineare un quadro illuminante.

Marino Massimo De Caro non ha titoli per dirigere una biblioteca. Anzi, non ha proprio titoli. Si è iscritto a Giurisprudenza a Siena, nel 1992: è rimasto iscritto fino al 2002, ma non si è mai laureato. In compenso, il 22 settembre del 2004 l’Universidad Abierta Interamericana (privata) lo ha nominato dottore «honoris causa» in cambio del dono di quattro libri antichi e di un meteorite piovuto nel Sahara. In effetti, tutti i contatti di De Caro col mondo del libro antico non sono scientifici, ma commerciali: e non senza numerosi episodi assai dubbi.

In un paese normale quante possibilità ha uno con questo curriculum di arrivare a dirigere una delle 46 biblioteche pubbliche statali? Se da noi ci riesce, è solo grazie ad una cosa: la politica.

Dal marzo di quest’anno De Caro è il segretario organizzativo dell’associazione politica «Il Buongoverno», che raccoglie l’eredità dei Circoli di Marcello Dell’Utri: il presidente onorario è quest’ultimo, il presidente è il senatore Pdl Riccardo Villari, il segretario il senatore Pdl Salvatore Piscitelli, vicesegretari i senatori (sempre Pdl) Elio Palmizio e Valerio Carrara.

È stato grazie all’antico legame (nato in Publitalia) tra Dell’Utri e Giancarlo Galan, che quest’ultimo si è preso De Caro come consigliere al ministero dell’Agricoltura. E quando Galan si è spostato ai Beni Culturali, anche De Caro si è spostato (ovvio no?), diventando consigliere per l’editoria.

A quel punto il gioco è fatto. La Congregazione dell’Oratorio doveva nominare il direttore della biblioteca, ma l’impoverimento numerico e culturale dell’ordine di San Filippo Neri è tale da non consentire di trovare un candidato interno: cosa di meglio che rivolgersi ad uno dei consiglieri del Ministro per i Beni Culturali?

Ci fosse un dubbio sul ruolo che il Mibac deve aver giocato in quella nomina, basta rammentare chi era il sottosegretario ai Beni Culturali quando De Caro diventa direttore dei Girolamini: il napoletano Riccardo Villari, oggi presidente del Buongoverno!

Il cerchio magico dellutriano non ha abbandonato De Caro nemmeno nella tempesta di questi giorni.

I senatori Piscitelli e Palmizio hanno presentato un’interrogazione al ministro dell’Università per sapere se quanto il sottoscritto e il mio collega Francesco Caglioti (entrambi professori alla Federico II di Napoli) abbiamo cercato di fare per difendere i Girolamini «si riconduca allo svolgimento delle normali attività accademiche loro imposte dalla legge e se – soprattutto – non rischi di gettare discredito sulle istituzioni accademiche». Una (grottesca) intimidazione che è interessante solo perché teorizza esplicitamente che il legame politica-cultura si deve intendere come lottizzazione violenta della prima sulla seconda, giammai come azione civile degli intellettuali per la difesa del patrimonio culturale.

E non è finita. È stata Diana De Feo (senatrice Pdl e moglie di Emilio Fede) a difendere De Caro a spada tratta dalle prime polemiche. Ed è stato «il Mattino» (diretto dal nipote di Dell’Utri) ad accogliere sue interviste a raffica.

Il ministro tecnico Lorenzo Ornaghi avrebbe avuto un’ottima occasione per mostrare agli italiani che lo cose possono cambiare. E invece anche lui si è genuflesso all’eterno primato della consorteria politica.

Fonti ministeriali assicurano che ben prima che scoppiasse lo scandalo, erano arrivate al Mibac pesanti segnalazioni di irregolarità ai Girolamini: e che, tuttavia, una vera e rigorosa ispezione era stata archiviata a causa di pressioni politiche. Non ci sarebbe da stupirsi: Ornaghi ha taciuto dopo il mio articolo; ha taciuto dopo che gli sono state inviate le prime 500 firme (oggi sono oltre 4500) di intellettuali che chiedevano la rimozione di De Caro; ha taciuto dopo che Gian Antonio Stella ha raccontato la vicenda, da par suo, sulla prima pagina del «Corriere della Sera».

Il coraggioso ministro ha parlato solo il giorno dopo che i carabinieri hanno sequestrato la biblioteca e indagato il suo consigliere per peculato. Ma ha parlato per comunicare alla Camera che aveva accettato nientemeno che l’autosospensione di De Caro dalla carica di suo consigliere: che intraprendenza, signor ministro! L’indomani – dopo aver ricevuto la visita del procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo – Ornaghi ha avuto un soprassalto di decenza, ed ha finalmente deciso di rimuovere De Caro: ma si è ben guardato dal comunicarlo alla stampa, limitandosi a farlo cancellare dal sito Mibac. E se domani dovesse venir meno il sequestro conservativo della Biblioteca, De Caro tornerebbe a dirigerla. E Ornaghi ha detto alla Camera che quella nomina spetta alla Congregazione dell’Oratorio, e che lui, dunque, non può far nulla.

La verità è che non mancano strumenti giuridici e politici che permettano a Ornaghi di porre fine a questo scandalo. Se non lo farà, sarà almeno chiaro che il rapporto tra la politica dei tecnici e la politica dei politici si può riassumere in una singola parola: complicità.

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