Il mondo – il mondo di tutti quelli che sperano in un mondo nuovo – s’era quasi all’istante innamorato di lei. E con ben più d’una buona ragione, non tanto per la sua indiscussa, abbagliante bellezza (solo due settimane fa il New York Times Magazine l’aveva nominata, in un lungo reportage ,“The Most Glamourous Revolutionary”, la più affascinante rivoluzionaria), quanto per l’esatto contrario. Ovvero: perché Camila Vallejo Dowling, 23 anni, studentessa della facoltà di Geografia e militante comunista, era riuscita, con straordinaria perizia politica e mediatica, a sovrapporre alla luce della sua bellezza la sostanza d’una nuova proposta politica, la realtà d’un movimento per la “educazione libera e gratuita” che aveva messo (anzi, che continua a mettere) a nudo le ferite del cosiddetto “miracolo cileno”.

Da molti paragonata al sub-comandante Marcos
(l’ormai semi-dimenticato volto mascherato della rivolta degli indios del Chiapas), Camila ha negli ultimi due anni dato a quel movimento di giovani molto più –  idee, slancio, energie – d’un volto terribilmente telegenico. Ed è stato in buona parte grazie a Camila che gli studenti d’un paese di cui di norma i media non si occupano che in occasione di eventi estremi – un golpe, un terremoto, uno spettacolare salvataggio di minatori rimasti intrappolati nel sottosuolo – hanno, per molti mesi, avuto la capacità di parlare un linguaggio universalmente comprensibile in un pianeta afflitto dalla crisi del cosiddetto “modello neo-liberale”.

Poi Camila è andata a Cuba. Ed a Cuba ha subito una sorta di trasfigurazione kafkiana. Non da essere umano a scarafaggio, come nel caso del Gregor Samsa de “La metamorfosi”, ma da “most glamorous revolutionary of the world”, a piccola, grigia burocrate comunista. O meglio: a piccola, grigia burocrate d’un comunismo al potere. Le sue parole, che in Cile e nel mondo erano risuonate come un poema di Majakovskij, hanno d’improvviso acquistato le plumbee tonalità d’un editoriale del Granma. Non tanto per il fatto – prevedibile e, in sé, non particolarmente riprovevole – che Camila ha difeso il regime cubano, quanto per il mediocre, vuoto cinismo delle sue parole, per la sua opaca, fiscalissima ipocrisia.

Non voglio farla lunga e riporto qui alcuni link che (in uno spagnolo più che accessibile) servono per avere tutti i necessari elementi di giudizio. Le prime dichiarazioni di Camila a Cuba e su Cuba. La risposta – che personalmente considero la migliore – di Patricio Fernández, direttore della rivista cilena The Clinic. La risposta che Camila rivolge ai suoi critici dal suo blog. E infine le due lettere aperte che a Camila hanno inviato il musicista e attore cubano Ismael de Diego e la famosa “bloguera” Yoani Sánchez.

Credo tuttavia sia utile sottolineare, in questa piccola tempesta di pensieri, quello che, tra le molte cose dette e scritte da Camila, meglio sembra condensare la metamorfosi kafkiana del personaggio.  Circolando per Cuba, afferma Camila in una dichiarazione entusiasticamente ripresa da tutta la stampa cubana “non ho visto in nessun momento gas lacrimogeni, ho visto la polizia circolare per le città indossando la sua uniforme senza caschi o armi d’ogni tipo. Questo tipo di cultura civica, tanto dello Stato quanto dell’insieme della società, è anni luce lontana dalla repressione che (in Cile n.d.r.) ha vissuto il movimento studentesco l’anno passato…”.

Perfetta e terribile la risposta di Patricio Fernández: “Una simile dichiarazione, Camila, è sinceramente alla stessa altezza dei i commenti di quelle señoronas pinochetistas che, ai tempi della dittatura, affermavano che il Cile era un’isola di tranquillità”.

Povera Camila (e poveri noi che di lei c’eravamo innamorati). Nel leggere queste parole sembra quasi di sentire il sibilo maligno d’un palloncino che si sgonfia…

(Foto: LaPresse)

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