Una piccola notizia oggi sui giornali mi ha fatto sobbalzare di gioia. Il quotidiano inglese The Indipendent ieri ha pubblicato un’intervista di Julian Spalding, ex direttore dei musei di arte contemporanea di Glasgow, Manchester e Sheffield, in cui afferma che l’arte di Damien Hirst semplicemente non è arte. L’attacco segue di poco quello che già ha sparato contro Hirst, David Hockney, artista inglese nel vero senso del termine. L’occasione di questi attacchi è che il 4 aprile verrà inaugurata una retrospettiva di Damien Hirst alla Tate Modern Gallery di Londra.

Qualcuno comincia a indignarsi e qualcuno che sa il fatto suo.

Cercherò di spiegare i motivi di questa mia gioia. Intanto ho visto le opere di Hirst dal vero solo una volta a Londra ed era un teschio tempestato di diamanti, For the Love of God (battuto all’asta per 50 milioni di sterline), esposto temporaneamente al British Museum. Conosco lo squalo in formaldeide, a cui Francesco Bonomi ha dedicato un libro che parla proprio del mercato ipertrofico creato da questo pesce marcio (valutato 25 milioni di dollari); ho visto altre creazioni di Hirst definite già da qualcuno “paccottiglia miliardaria”.

Ma dove è la novità? Per la prima volta si parla apertamente di truffa e del fatto che il lavoro, più o meno discutibile di Hirst, semplicemente non è arte; la truffa “sta nel chiamare arte qualcosa che arte non è” . Che bello leggere queste parole! E quante volte mi sono accapigliata con persone che mi bollavano come bacchettona e antimoderna semplicemente perché dicevo che quella roba lì andava bene se si fosse chiamata…Etra, per esempio, cioè il contrario di Arte. Non avrei avuto niente da obiettare se Hirst e altri come lui fossero considerati non “artisti” ma “Etristi”… Ma invece si ostinano a definirla “Arte”, creando un danno a quel sacro termine paragonabile a quello che ha arrecato Berlusconi alla parola “libertà”.

Quella di Hirst non è arte non solo perché manca totalmente l’espressione del talento e trionfa solo l’idea (fatta poi realizzare da altri), ma non lo è perché tradisce il principale compito che ogni forma d’arte: quello di suscitare l’emozione di vedere che un essere umano si è impegnato ad esprimere, usando il suo talento, la sua essenza; quando siamo davanti a un’opera creata da qualcuno che si è ingegnato, è disceso in sé alla ricerca di una sua verità cercando poi di esprimerla con parole, pennelli, scalpelli o altre mezzi, noi ci sentiamo un po’ più felici di appartenere alla razza umana.

Così come ci avvilisce quando un essere della nostra specie compie un’azione brutta (anche solo dare un calcio a un animale o buttare in terra un sacchetto della spazzatura), così ci riscaldiamo quando compie un atto che ci procura ammirazione. Questo è il mio pensiero. Quel furbacchione di Hirst invece ha cercato di annusare (e in questo è stato abile) la moda del momento: lo scandalo creato dalla messa in scena della morte, l’emozione dello schifo dei vermi e delle mosche che si cibano di una testa di mucca e altri profumini accattivanti. Il resto lo hanno fatto le tre o quattro grosse gallerie americane capaci di muovere enormi somme di denaro esaltando la novità della provocazione. Ma quale provocazione…mi facciano il piacere.

Articolo Precedente

L’exploit di “Donne di carta”, blog per “dire” a voce i propri libri preferiti

next
Articolo Successivo

Il Male combatte la crisi col formato low cost e raddoppia con l’edizione straordinaria

next