Ah Tao (Deanie Ip) da decenni è la domestica di una famiglia di Hong Kong, di cui ha visto nascere quattro generazioni. Ormai tutti sono andati a vivere negli Stati Uniti e lei è rimasta sola con Roger, produttore cinematografico che negli Usa ha studiato e a cui ha fatto da tata quando era bambino. Un giorno Ah viene colpita da un infarto e chiede a Roger di poter andare in pensione in un ospizio. Un po’ alla volta, il produttore restituirà quel debito di affetto che la sua famiglia ha nei confronti dell’anziana signora.

A simple life è un film lieve e non è detto che durante la visione si comprenda a fondo quanto sia duro e realista. Non è un film sulla solidarietà, A simple life. Né un film sentimentale, né tanto meno un film che racconta il “ribaltamento” di un rapporto o di una prospettiva: Roger è e resta il “padrone”, Ah è e resta la “domestica”. Ma nessuno è a disagio nel proprio ruolo. A simple life è piuttosto un film sul dovere della riconoscenza. Sul dovere di essere giusti rispetto a ciò che abbiamo ricevuto. Ah si è presa cura di una famiglia con discrezione e precisione (vedi il rapporto con il cibo, che deve essere impeccabile) e Roger assume come atto indiscutibile prendersi cura di lei accompagnandola verso la fine dei suoi giorni.

L’affetto è un sentimento tra le righe ma sempre presente in ciò che è bene fare. L’affetto è la risonanza dei gesti opportuni. A prima vista non appare: nelle scene iniziali, potremmo pensare che non c’è alcun rapporto tra Roger e Ah, mentre lui mangia e lei semplicemente imbandisce la tavola, cucina e lo serve. A prima vista, appunto. Quello di Ann Hui è un film che procedendo disegna, ogni istante, i dettagli di una realtà densa e mai univoca. Emblematica, in questo senso, la vita dell’ospizio in cui viene portata la protagonista: un incubo inospitale, un luogo infernale appena arrivati, che poi si trasforma in spazio di condivisione. Ovvero in luogo vissuto da un’umanità variegata: vecchi ormai privi di parola, infermiere gentili, anziani ancora in vena di divertisti, donne che giocano a mah-jong. Un luogo in cui alla fine si condivide un pezzo di esistenza con gli altri, legando le proprie giornate a quelle di chi ci sta a fianco. Ed è questa, in fondo, la base dell’affetto tra Roger e Ah Tao: la vicinanza fisica è un invisibile filo che genera sentimento.

L’attraversamento degli spazi e la loro mutazione sono uno dei punti dominanti in un film dove più che mai i luoghi di una vita vengono percorsi, lasciati, venduti. Perché non esiste uno spazio puramente affettivo o puramente “economico”, ma una molteplicità di sensi in ogni luogo. In A simple life enorme e degno di interesse è poi ovviamente il tema della vecchiaia in paesi e società in cui è la famiglia, e rarissimamente lo Stato, a doversi occupare del sostentamento degli anziani. Ma ancora più interessante è il rapporto tra classi sociali che è di rispetto, di dignità, mai di equivalenza. I due protagonisti non si mischiano né minimamente combattono dialetticamente: restano quello che sono sempre stati, rispettando le distanze senza però nascondere la dimestichezza domestica che negli anni hanno accumulato. Raffinato, composto, lontano – perché lontana da noi l’idea che il riconoscimento non significhi al fine “parità” – A simple life ricorda Ozu per la commistione tra grazia e ferocia. Che a tratti interviene (nel finale Roger non fa quel che il protagonista di un film “sentimentale” farebbe) rendendo tutto tremendamente vero. Coppa Volpi a Deannie Ip per la miglior interpretazione all’ultimo festival di Venezia.

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