Il soldato americano che l’11 marzo in preda a un raptus ha ucciso sedici civili nel distretto di Panjwai nella provincia di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, mi ha riportato alla mente il massacro, il cui anniversario cade in questi giorni, commesso da altri soldati americani quarantaquattro anni fa in Vietnam.

Il 16 marzo del 1968 i ragazzi della compagnia Charlie, al comando del capitano Ernst Medina, entrarono dalla parte settentrionale del villaggio di My Lai, dove ora sorge un grandissimo, giovane albero, e dove, allora, giocavano i bambini.

Svuotarono i caricatori. Buttarono le bombe a mano nelle capanne. Violentarono le ragazzine in branco, da veri boy-scout, poi le trucidarono con le baionette.

I più pericolosi esponenti del villaggio: vecchi e donne, vennero raccolti in gruppi e falciati con le mitragliatrici. Lo stomaco di una donna gravida venne aperto con un machete, il feto lanciato lontano nelle sterpaglie.

Poco distante, a Binh Tay, un villaggio vicino, il tenente Caley guardava un neonato che a gattoni stava cercando di uscire dal mucchio di corpi massacrati. Il tenente, che amava le cose ben fatte, con un calcio spinse il lattante di nuovo nella fossa comune e gli sparò. Siamo sinceri, non è mica facile distinguere un guerrigliero viet-cong da un bambino di otto mesi.

I soldati finirono i superstiti, appiccarono il fuoco alle case, uccisero il bestiame ancora vivo, raccolsero infine donne e bambini e li uccisero. In tutto trecentoquarantasette civili. Anche se il numero rimane imprecisato perché quando misero fine alla mattanza, gli uccisori buttarono bombe a mano sui corpi per nascondere l’eccidio. Nel rapporto militare fu scritto che erano stati uccisi novanta viet cong e nessun civile.

La notizia del massacro arrivò negli USA. Qualcuno chiedeva giustizia, i più chiedevano di chiudere in fretta la faccenda per poter continuare in tutta tranquillità i bombardamenti sui centri abitati del Nord Vietnam. Il processo fu solamente contro Calley. Più semplice e sbrigativo. La giuria si ritirò in camera di consiglio il 16 marzo 1971, riconobbe Calley colpevole dell’omicidio di almeno ventidue civili e lo condannò ai lavori forzati a vita. La pena fu poi ridotta a vent’anni e poi a dieci, fu infine liberato sulla parola nel 1974 dopo tre anni e mezzo trascorsi agli arresti domiciliari.

Il massacro comunemente noto come l’eccidio di My Lai, l’inutile orrore scatenato da un branco di vaccari assassini, è ricordato a Xom Lang, dove, in mezzo alla vegetazione e al silenzio, è stato eretto il monumento commemorativo alle vittime. My Lai è solo uno dei quattro villaggi dove i marines sfogarono la loro cieca violenza sui civili. Il monumento commemorativo è stato edificato a Xom Lang perché lì i massacri furono più efferati.

Nella casa museo, è impressionante constatare che nel libro delle firme dei visitatori non compaiano nomi americani. Sembra strano che nessuno si senta in dovere di venire a vedere. Forse non sanno? Nessuno di loro ha passeggiato nei luoghi dove il capitano Ernest Medina e i suoi sgherri, il tenente Wiliam Calley, il tenente Jeffrey la Cross e il tenente Stephen Brooks, sguinzagliarono i loro uomini?

Fuori dall’area recintata del museo due bambini giocano, correndosi dietro. Appesi agli alberi sono scritti su lavagnette di legno i nomi delle persone che sono state massacrate. La famiglia Khoi, il più grande aveva sedici anni, la più piccola tre anni; il signor Chinh, novantuno anni, sicuramente un sovversivo; la famiglia Loy, padre, madre, figli, nipoti: ottantaquattro anni, settantotto anni, trentadue anni, dodici anni, sei anni, quattro anni, due mesi… due mesi. Mette i brividi.

Oggi, altri tempi, altri militari, altri luoghi, altri brividi. Un soldato che alle tre del mattino vaga nel nulla afghano. Entra nei villaggi di Alokozai e Garrambad sparando ai civili, spalanca porte, irrompe nelle case, trucida donne e bambini e come se niente fosse va poi a consegnarsi allegramente al suo comando.

John Allen il comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan, ha promesso un’inchiesta “rapida e approfondita”. E a me viene in mente il tenente Calley. Mi viene in mente la sua faccia snob, le immagini dell’orrore vietnamita. La giuria che lo condanna ai lavori forzati a vita e che, una volta pentito, lo libera e gli dà la sua benedizione. Non so perché ma non mi fido mica tanto della giustizia delle forze armate americane…

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