di Roberto Erro
Anche se con un po’ di ritardo rispetto ai mercati esteri, anche in Italia si sta affermando la passione per la birra artigianale. La passione, si sa, talvolta ripiega nel fanatismo o nella moda e così sembra si sia innescata una corsa, tra ristoratori illuminati e sommelier dell’ultim’ora, a riempire pagine e pagine dei loro menù con birre di tutti i tipi, purché sia artigianale, è evidente.

La grande distribuzione ha fiutato l’affare e grandi marchi come Esselunga e Coop hanno iniziato a farsi produrre in esclusiva birre artigianali da vendere sui propri scaffali.

Secondo la lingua italiana il termine artigianale si riferisce a ciò che è proprio dell’artigiano, a quello che quindi viene prodotto a mano, senza l’ausilio di procedure meccanizzate che aumentando il numero di pezzi prodotti, finisce con il determinare una riduzione in termini di qualità. Stando a questa definizione sembra che la birra artigianale e la grande distribuzione non possano andare tanto d’accordo. Eppure il consumatore, spiazzato dinanzi a scaffali pieni zeppi di birra di cui non riconosce nemmeno il nome, come fa ad essere tutelato? Come fa a scegliere tra due birre di cui non conosce nome e provenienza se su entrambe l’etichetta riporta la dicitura artigianale? Forse conviene fare un po’ di chiarezza in modo che il bevitore nella sua scelta sia quanto meno un po’ più consapevole.

In Italia la legge che disciplina la produzione e il commercio della birra risale al 1962. Essa prevede una classificazione delle birre a seconda del livello di grado Plato (livello zuccherino del mosto prima che avvenga la fermentazione): così si distingue la birra analcolica, quella leggera e così via fino alla doppio-malto. Questo tipo di strumento, che prevede una tassazione crescente man mano che i gradi Plato e quindi quelli alcolici aumentano, non offre al consumatore nessuna tutela circa la qualità del prodotto in bottiglia, eppure esso è l’unico riferimento esistente cui un produttore ha l’obbligo di sottostare.

Ogni altra aggiunta in etichetta è per questo fuori legge: qualche mese fa infatti, il micro-birrificio pescarese Almond 22 si è visto infliggere una multa dal ministero delle politiche agricole per via della dicitura Birra Artigianale posta in etichetta sui suoi prodotti.

Ma il termine birra artigianale significherà pur qualcosa?

Purtroppo, non solo in termini di legge, una definizione non esiste, nonostante abissali siano poi le differenze in termini di qualità tra la produzione industriale e quella artigianale. I grossi produttori industriali di birra infatti, aderendo alle logiche di mercato che impongono grossi numeri a prezzi stracciati, non sempre utilizzano materia prima di alta qualità, tagliando ad esempio il malto d’orzo con cereali meno nobili e costosi come il mais; preferiscono estratti di luppolo rispetto ai fiori della pianta amaricante o riutilizzano più volte ceppi di lieviti oltre il massimo della propria vitalità. Inoltre, per garantire la massima stabilità possibile, la birra viene sottoposta a pastorizzazione o a micro-filtrazione, processi che abbattono la qualità della birra in termini sia nutritivi che organolettici.

Quanto ai numerosi birrifici che in Italia utilizzano materie prime di alta qualità, preferendo talvolta prodotti locali a Km zero, che non pastorizzano, lasciando intatte le qualità e le virtù di una birra dal sapore davvero artigianale, essi sono trattati alla stregua dei colossi industriali e sono passibili di grosse multe, perché poi in etichetta non possono scrivere di essere davvero artigianali (nonostante quasi tutti ormai lo facciano).

Negli Stati Uniti la situazione è differente. L’associazione dei birrifici americani è stata la prima e l’unica a redigere criteri specifici: per poter definire la propria birra come “craft beer” (birra artigianale), un birrificio deve rispettare i principi di piccolo, indipendente e tradizionale.

Piccolo perché deve produrre meno di 6 milioni di US barrel l’anno.

Indipendente perché economicamente svincolato dalle grosse aziende del beverage.

Tradizionale perché almeno la metà della produzione deve essere rappresentata da birre prodotte con solo malto d’orzo.

Appare ovvio che questa definizione non può essere trasposta tal quale alla realtà italiana, soprattutto per quanto riguarda i numeri, eppure essa può rappresentare un canovaccio da cui partire. In assenza di questo sforzo e in balia dell’obsoleta legge 1354 del 16 agosto 1962, il consumatore non è per nulla tutelato, troverà sugli scaffali “birre artigianali” di dubbia fattura, magari prodotte per conto terzi da mega-imprese della grande distribuzione, con un grosso rischio: quello che la parola artigianale si svuoti di significato e che il lavoro fatto fino ad ora dai veri artigiani della birra venga disperso e spazzato via da qualche sciacallo del mercato che ha fiutato l’affare in arrivo.

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