Ho deciso di scrivere delle Primarie milanesi dopo averci riflettuto a lungo. In questo caso, infatti, non sono semplicemente un analista: ho partecipato alla campagna facendo parte del gruppo di lavoro a sostegno di Stefano Boeri, insieme a Proforma, l’agenzia per cui lavoro.

Allo stesso tempo sono pugliese e lavoro con Nichi Vendola, dunque mi sono ritrovato a leggere titoli come “Ciclone Vendola” o “Effetto Puglia” e a provare, perlomeno, un senso di stordimento.

Ho deciso comunque di buttar giù le mie riflessioni, correndo più di un rischio. Ogni mia parola può essere fraintesa, può essere percepita come parziale, rancorosa, rabbiosa, come una giustificazione. Ma allo stesso tempo ho letto troppe analisi imperfette, frettolose, fintamente scolastiche, da parte di stimati giornalisti che hanno sottovalutato l’impatto nazionale della partita milanese e che hanno snobbato la splendida competizione elettorale salvo poi ricavarne analisi imprecise, nella migliore delle ipotesi.

Perché Pisapia ha vinto? Per tre ragioni.

La prima: perché era più conosciuto e più amato. È stato sempre avanti negli indici di popolarità e fiducia. Nessuna campagna elettorale può invertire questa tendenza in così poco tempo e soprattutto in una sfida tra due personaggi percepiti entrambi come portatori di un messaggio di speranza, seppur con toni diversi. Leggendo i motivi per cui i milanesi hanno preferito Pisapia a Boeri, troviamo categorie tutte emotive come “è più amato”, “mi fido più di lui”, “lo sento più vicino agli interessi delle persone”. Non mi è capitato di leggere affermazioni come “perché penso che possa fare meglio il sindaco”, o “è più competente”. Eppure il senso delle elezioni Primarie per un incarico amministrativo dovrebbe essere questo: indicare il miglior sindaco possibile, anche perché poi il sindaco è l’attore istituzionale a noi più vicino, quello a cui chiediamo delle buche nelle strade, delle strade allagate, dei servizi pubblici poco efficienti. Questa analisi, sulla carta, offre ottimi argomenti per i detrattori delle Primarie come metodo di selezione della classe dirigente. Ma si deve rifuggire da sentimenti elitari e dalla furia da ritorno alla cooptazione: piuttosto, nella scelta dei candidati bisogna badare a più variabili, prima fra tutte la partecipazione popolare al processo della scelta del candidato.

Il secondo motivo è collegato al primo ed è stato l’unico, vero, errore del Pd: non la scelta del candidato, capace, entusiasta e in grado di gestire la complessità, lucido nel restituire al mittente tutte le accuse di conflitto di interessi per la sua attività professionale (anche se due mesi, forse, non sono sufficienti a far fugare tutti i dubbi), quanto la non avvenuta discussione del nome con la base, che probabilmente avrebbe scelto comunque Boeri dopo averlo conosciuto. Una discussione che non mi pare sia avvenuta all’interno delle forze politiche che sostenevano Pisapia. Da qui deve ripartire il Pd: da un segnale di grandissima energia democratica dei propri elettori, reali o potenziali, soffocata e dunque automaticamente orientata sulla polarità negativa in caso di scelte anche minimamente forzate, anche se corrette, da parte dei dirigenti locali del partito. Nel caso milanese il processo era stato già avviato grazie al “gruppo dei 91”, un’esperienza civica che è stata svuotata di significato a causa dall’endorsement istantaneo da parte del Pd nei confronti di Boeri. Una decisione, forse dettata dalla fretta (Pisapia era in campagna elettorale già da fine luglio) o dalla convinzione che Boeri fosse un buon candidato (e che gli elettori lo avrebbero capito), ma che ha portato alla candidatura di Valerio Onida, il cui 13% finale pesa, e tanto, se pensiamo che la distanza tra Pisapia e Boeri è stata di cinque punti e, soprattutto, se ricostruiamo la campagna del costituzionalista, totalmente orientata a destabilizzare l’equilibrio interno al PD: un’operazione riuscita. Tra le pieghe di questo pezzo di storia possiamo anche leggere la contrazione del numero di partecipanti alle Primarie a fronte di una campagna elettorale invece assai aperta, avvincente e con eventi di grande impatto, anche mediatico.

La terza ragione è quella che hanno correttamente offerto i vertici lombardi del Pd, spiegando le ragioni per cui rimandavano il loro mandato nelle mani dell’Assemblea (un gesto d’altri tempi: quanti altri dirigenti locali si sono dimessi dopo sconfitte ben più drammatiche?) dopo la sconfitta: oggi le elezioni Primarie sono un referendum pro o contro-Pd. Ogni competizione elettorale rischia di diventare un referendum, un’ipotetica sfida permanente tra Vendola e Bersani. Nessun analista ha evidenziato che questa tornata elettorale è la prima sfida vera da marzo, dalle Regionali. Nel frattempo il mondo politico italiano è cambiato profondamente ed è impossibile non contemplare questa variabile. Un dato che, su tutti, dimostra questa tendenza è riscontrabile su Facebook: Pisapia ha chiuso la campagna elettorale con il doppio dei sostenitori di Boeri, ma il secondo ha fatto registrare un’attività molto superiore sulla sua pagina. Questo, secondo me, vuol dire una cosa: i fan di Pisapia-Vendola erano disseminati in tutta Italia (e volete che questo non abbia influito anche nei comportamenti di voto dei milanesi?) e avevano un’adesione al progetto superficiale (è il candidato di Vendola, dunque è il mio candidato); i sostenitori di Boeri erano tutti a Milano. Il Pd, da Bersani all’ultimo dei militanti, dovrà riflettere su questo: se il Partito, legittimamente, non vuole recitare solo un ruolo da arbitro ma anche da attore protagonista, dovrà interpretare ogni competizione elettorale come una battaglia nazionale per la leadership, altrimenti sarà costretto sistematicamente alla sconfitta.

Le altre argomentazioni, sinceramente, non mi convincono. In particolare quella che è possibile ascoltare da parte di chi a Milano non ha messo piede, non ha seguito la campagna elettorale, secondo cui il candidato di Vendola (Pisapia) è automaticamente “più di sinistra” di quello del Pd (Boeri). In questo caso, così non è stato. Boeri si è espresso per primo sul no incondizionato al nucleare (una scelta politica “vendoliana”), Pisapia ha inizialmente affermato che prima di dire no bisogna valutare bene rischi e opportunità del nucleare, salvo tornare a posizioni meno incerte due giorni dopo. Ancora più eclatante è l’analogo movimento registrato sulle posizioni dei candidati sulla “democrazia completa”, la parità di genere. Boeri ha dichiarato da subito il suo favore a una Giunta in cui la parità di genere fosse perfetta (altro baluardo dello stile amministrativo di Vendola); Pisapia ha inizialmente parlato di “idea preconcetta”, poi ha realizzato che Boeri e Vendola affermavano le stesse cose e ha rettificato anche in questo caso.

L’analisi demografica del voto, inoltre, ci dice che Pisapia e Boeri hanno pareggiato in periferia che il primo ha costruito la sua vittoria nel centro, nella zona 1, dove ha staccato Boeri di circa 11 punti (l’unica zona di Milano dove ci sono stati più elettori che nel 2006). Questo è un altro tipico movimento della sinistra contemporanea, fortissima nei grandi centri abitati ricchi e acculturati, impalpabile nelle periferie e nella provincia (basti pensare alle Regionali nel Lazio).

E ora? Pisapia può vincere a Milano? Solo con Boeri accanto.

Non credo al parallelo con la vicenda pugliese del 2005. Molti già dicono: “Ma dicevano così anche di Vendola in Puglia”. I casi, però, sono totalmente differenti. Se Vendola è un fenomeno, Pisapia è “solo” una bravissima persona e un ottimo candidato che combatte in uno scenario, se possibile, ancora più complicato di quello che il leader di SEL ha dovuto sfidare nel 2005, vincendo per un’inezia. Ogni parallelismo e ogni tentazione di fuga in avanti dovrà essere bloccata sul nascere, probabilmente dallo stesso Vendola che, per le sue ambizioni politiche, ha certamente più bisogno di battere la Moratti alle Amministrative che essere ritenuto il mandante dell’ennesima sconfitta elettorale del Pd. Per questo la sinistra milanese (e italiana) dovrà al più presto rinunciare all’ardore anti-Pd: comprensibile, dopo due anni fuori dal Parlamento a colpi di voto utile del 2008, suicida se si vuole davvero guidare questo Paese e la città di Milano.

Pisapia, per vincere a Milano, dovrà riconoscere il merito di Boeri nella costruzione di un programma per la città portatrice di una visione, dovrà riportare a sé moltissimi contributi creativi e molto entusiasmo giovanile aggregati dal candidato del Pd e dovrà formalizzare un vero e proprio ticket di governo. Il candidato sindaco di Milano dovrebbe accettare l’idea di avere un co-sindaco, proprio Stefano Boeri. Allo stesso tempo Boeri dovrà superare la delusione per una sconfitta comunque molto dura, accettare il ruolo di “secondo” e lavorare attivamente per ricomporre la sinistra milanese e, dunque, per farla vincere. In fondo, Pisapia e Boeri sono così eterogenei da avere bisogno l’uno dell’altro. Anche perché, se le storie dei due protagonisti di questa competizione elettorale dovessero dividersi, verrebbe meno proprio il senso delle Primarie.

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