“Ridere di mafia è una ribellione incontrollabile”. Con questa premessa, Giulio Cavalli ci invita a entrare nella sua vita. Un’esistenza donata al teatro e allo sberleffo del potere mafioso, delle sue più basse logiche. Una vita che, per un assurdo disegno del destino, diventa preda della solitudine, dell’abbandono, della paura; vissuta in compagnia di un sentimento di rabbia. Di tutto questo parla il libro Nomi, cognomi e infami, (Edizioni Ambiente, 16 euro). Di un assurdo destino che oggi condiziona la vita di 670 italiani, costrette a vivere 24 ore su 24 sotto tutela.

Tutto nasce da una denuncia: “Le mafie al nord esistono”. Sembra nulla ma quando Giulio Cavalli, nato a Milano nel 1977, parla delle ‘ndrine lombarde, l’opinione pubblica sembra non saperne nulla, le istituzioni pubbliche colte nel torpore. Lo denuncia lui, che nel 2001 fonda a Lodi una compagnia, la Bottega dei Mestieri Teatrali. Lui, che nel 2008 con Do ut Des, della denuncia stessa fa messa in scena. Uno spettacolo sui riti e conviti mafiosi.

La parte “rischiosa” della vita di Cavalli coincide con la prima data dello spettacolo. E’ un vissuto difficile da raccontare su un palco: “Roba da giullari, in una storia per giullari”, scrive nel libro. Un canovaccio difficile da sbrogliare in compagnia dei concittadini. Abitanti di un profondo nord, che nella narrazione dell’attore diventa – ancora una volta per uno strano gioco dell’assurdo – ‘giù a Nord’. Una mattina, racconta l’autore nel libro, arrivando presto in teatro trovo sul lato posteriore, all’ingresso degli uffici una bara, disegnata, e sotto il mio nome e cognome. “A Lodi? A Lodi. Se la sarà disegnata, sarà una ragazzata”.

Il protagonista inizia la sua storia su un palcoscenico, prosegue negli uffici “inscatolati, tra i faldoni giudiziari” e termina, con una scorta 24 ore su 24 al suo fianco. I ragazzi, che in alcuni appunti intimi portati alla luce, l’autore definisce “paura in divisa e organizzata”. Una sentimento, quello della paura, che torna in diversi passaggi della narrazione. E che, nel conviverci insieme, appare in caleidoscopiche raffigurazioni. Sino a divenire canzone: “Me la suono spesso la paura. È una canzone che è stata un crescendo costante e alla fine, per questa abitudine orribile tutta umana di abituarsi a tutto, mi è rimasta cucita addosso come una tasca”.

Punti di riferimento del passato: Bruno Caccia, magistrato vittima della ‘ndrangheta, Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia, Peppino Impastato, fondatore di Radio Aut ucciso per aver preso in giro il boss Gaetano Badalamenti. Poi gli amici di oggi: Pino Maniaci, giornalista siciliano di Telejato, anche lui sotto tutela, il sindaco di Gela, Rosario Crocetta. Tutti nomi ricorrenti negli appunti dell’autore. Persone, divenute nei ricordi quotidiani, compagni di un rito di espiazione. Espiazione dalla paura. “Io ho paura, ma non ho paura di avere paura. Ho paura di questa sensazione liquida che ti entra nelle ossa intime. Ho paura di essermi abituato alla paura. Ho paura di essere stato scippato per qualcosa che non so”.

Una paura di cui si conosce il gioco, si cerca di prevedere le mosse, arma da scagliare contro i nemici: “Ecco io oggi vorrei, a Mafiopoli, che nell’assemblea, quella sotterranea degli scemi del villaggio, io vorrei che si decidesse di restituirgliela questa paura. Perché cari tutti i Totò di Mafiopoli, perché voi non lo sapete ancora, che dalla paura non si esce né dissociati né pentiti”.

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