Picconatore, grande esternatore, depresso, bipolare. Su Francesco Cossiga sono state spese migliaia di parole, interviste, spiegazioni. E adesso che è morto, sfinito dalle difficoltà respiratorie delle ultime settimane, se ne spenderanno di più.

Il giorno in cui fu eletto Presidente della Repubblica, il 24 giugno 1985, sembro’ celebrarsi l’apoteosi della Democrazia Cristiana: 750 voti e passa dei grandi elettori riuniti a Montecitorio e il candidato di Ciriaco De Mita che passa al primo tentativo. Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti, avvicino’ un cronista e disse tutto soddisfatto: “Lo sai perché governeremo fino al Duemila? Perché so’ l’altri che so’ stronzi”. Poi si corresse: “Scrivi ‘fessi’, va’, che e’ meglio”.

Evangelisti, ma anche De Mita, ignoravano non solo che la Dc sarebbe scomparsa gia’ nel 1992, ben prima dei pronostici. Non sapevano nemmeno che l’uomo che avevano appena portato al Quirinale sarebbe stato uno dei grandi distruttori dello stesso ordine cui apparteneva. Al Colle era salito infatti Francesco Cossiga, capitano di corvetta ad honorem, ministro degli interni all’epoca del Caso Moro e gran picconatore della Prima Repubblica. L’uomo, assieme ad Andreotti, che più di tutti ha custodito la spiegazione di una buona parte delle pagine segrete della recente storia d’Italia. Gladio, in primis, ma soprattutto il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.

Nel 1978 era ministro degli interni, il più impopolare della Repubblica. Gli estremisti extraparlamentari di sinistra lo chiamavano Kossiga, inserendo nel suo cognome di famiglia nobile sarda il logo delle SS naziste. La cosa lo offendeva particolarmente. Una volta, già Presidente della Repubblica, ne affrontò da solo un centinaio in Piazza Castello a Torino. “Non ho avuto paura di voi nel ’77, figuriamoci se ne ho ora” urlo’ al loro indirizzo. In mezzo c’era la sicurezza del Quirinale, guidata dal suo uomo di fiducia prefetto Mosino. L’uccisione di Moro fu il momento di svolta della sua vita, non solo politica. Dopo il ritrovamento del cadavere – a due passi da Botteghe Oscure come da Piazza del Gesù – si dimise vivendo mesi successivi di solitudine. Il triste epilogo apparente di un enfant prodige democristiano: giovane professore universitario, giovanissimo deputato e sottosegretario e poi ministro. La parabola torna ad essere ascendente quattro anni dopo. Arrivano gli incarichi da presidente del Consiglio e presidente del Senato. Infine il Quirinale. La prima cosa che fece, il giorno dell’elezione, fu di andare a trovare Moro nella sua tomba di Turrita Tiberina. Fu anche il gesto con cui chiuse il settennato, nel 1992, quando nel bel mezzo delle stragi di mafia l’Italia si trovò senza presidenza della Repubblica e senza presidenza del Consiglio. Era tutto finito, a quell’epoca, ma in mezzo c’era stato un quinquennio di silenzio seguito da un biennio di interventismo extraparlamentare.

Ormai fuori dal grande gioco, Cossiga aveva iniziato ad “esternare”, termine che passò al vocabolario della politica e non solo: far sapere all’esterno quello che ti pesa sullo stomaco. Quasi una funzione liberatoria della parola, ma mai abbastanza per chiarire i fatti. Alla fine lo chiamavano “Externator, e la cosa dovette piacergli se è vero che sotto questo nome raccolse e pubblicò i suoi interventi di quel periodo. Esternò due anni, Cossiga, minacciando le dimissioni a giorni alterni: per la precisione dall’autunno 1989, quando si schiero’ a favore di un’ondata di protesta giovanile, quella della “Pantera”, al 25 aprile del 1992, quando si dimise con tre mesi d’anticipo sulla fine del mandato.

Nel frattempo aveva accusato il segretario del Pds Occhetto di essere uno “zombie coi baffi” (Occhetto aveva appena chiesto il suo impeachment per la faccenda Gladio), i giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia di essere dei “giudici ragazzini” e l’allora ministro dell’economia Paolo Cirino Pomicino di essere “keynesiano perche’ spende a man bassa”. Nella fattispecie, a riprova della qualita’ dei suoi rapporti con il suo ex partito, aggiunse: “dovremmo regalarglieli, i libri di Keynes. Ma prima facciamoli tradurre in napoletano”. Non aveva nemmeno disdegnato la politica internazionale piu’ spinosa, come quando da Trieste invito’ i carri armati serbi, impegnati in una guerra lampo contro la neoindipendente Slovenia, a passare per il capoluogo giuliano per rientrare piu’ rapidamente a casa. Sarebbe stata la prima volta che un militare jugoslavo si riaffacciava in città dai tempi delle foibe. I triestini non gradirono.

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