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Sul tema sicurezza, Palermo chiede prevenzione e trasparenza: non fare di più dopo, ma prima

Il modello di sicurezza urbana a Palermo è incentrato sulla reazione agli eventi invece che sulla prevenzione e anticipazione del rischio
Sul tema sicurezza, Palermo chiede prevenzione e trasparenza: non fare di più dopo, ma prima
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La convocazione a Palermo del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, e l’adozione di ulteriori perimetri a vigilanza rafforzata, sono atti istituzionalmente comprensibili sul piano della reazione immediata; ciò che non è più sostenibile, tuttavia, è la loro ricorrenza come forma ordinaria di governo della sicurezza urbana, perché in tale schema la decisione pubblica appare strutturalmente ancorata all’evento consumato e non all’anticipazione del rischio, con l’effetto di spostare il baricentro dell’azione amministrativa dalla prevenzione alla gestione ex post della crisi.

In questo quadro, la domanda che si impone – e che va rivolta direttamente al Prefetto Mariani e al Questore Calvino, e per la verità direttamente anche al Capo della Polizia quali vertici responsabili dell’indirizzo e del coordinamento – non riguarda la legittimità astratta delle misure, ma la comprensione integrale della loro funzione: se cioè sia stato da loro effettivamente interiorizzato che la sicurezza non può ridursi a un dispositivo di contenimento successivo all’esplosione del fatto, bensì deve configurarsi come metodologia stabile di anticipazione, fondata su presidi misurabili, su analisi empirica dei pattern di rischio e su un controllo pubblico dell’efficacia.

La criticità non è, dunque, “fare di più dopo”, ma organizzare un “prima” che non coincida con un generico incremento di pattuglie o con un ampliamento cartografico di aree sorvegliate, perché una misura territoriale priva di obiettivi, indicatori e condizioni di verifica rischia di degradare a simbolo amministrativo: rassicurante nella comunicazione, opaco nella valutazione, permeabile nella deterrenza, e potenzialmente produttivo di un mero effetto di displacement, cioè di traslazione dei fenomeni violenti su assi viari contigui.

Se la violenza notturna viene trattata come accadimento episodico e non come fenomeno dotato di segnali precoci, si finisce per assumere la patologia come fisiologia e per considerare l’evento grave come inevitabile, mentre ogni approccio preventivo serio presuppone l’esistenza – e l’intercettabilità – di indicatori antecedenti: incremento di risse e aggressioni, presenza stabile di soggetti noti, flussi anomali, micro-conflittualità ripetute, disponibilità di armi improprie e, nei casi più gravi, circolazione di armi da fuoco, dinamiche di mobilità che agevolano azioni rapide e fuga, nonché fallimenti ricorrenti nell’integrazione tra controlli di prossimità, gestione dei flussi della movida, presidio delle vie di fuga e coordinamento con l’ente locale sui fattori ambientali (illuminazione, videosorveglianza, regolazione degli orari, crowd management).

Proprio qui, a mio avviso, si colloca l’errore di impostazione: la conversione dell’eccezione in routine, la riduzione della prevenzione a risposta incrementale e l’assenza di un protocollo pubblico di accountability che consenta alla cittadinanza di verificare se l’azione istituzionale stia incidendo sulle variabili causali o stia semplicemente rincorrendo i picchi di cronaca. Per tale ragione, la richiesta non è “più fermezza” in termini indistinti, ma più governo in termini verificabili: rendere disponibili, con cadenza regolare e in formato tracciabile, i dati essenziali relativi alle attività svolte nelle aree critiche e nelle fasce orarie a maggior rischio, distinguendo nettamente tra fase antecedente e successiva alle misure adottate, così da consentire una valutazione comparativa.

In particolare, occorre rendere pubblica:
1. la consistenza delle risorse effettivamente impiegate (unità operative, ore/uomo, tipologia di servizi, presidi fissi vs controlli mobili);
2. il numero delle identificazioni e dei controlli;
3. il numero e la tipologia delle perquisizioni e dei controlli su veicoli, con indicazione degli esiti;
4. i sequestri effettuati, disaggregati per categorie (armi da fuoco, munizionamento, armi improprie; sostanze stupefacenti; strumenti da spaccio), con indicazione quantitativa;
5. il numero di denunce e arresti connessi agli episodi di violenza e ai reati “sentinella”;
6. l’adozione e l’applicazione concreta delle misure amministrative correlate (allontanamenti, provvedimenti su locali o su soggetti, ove pertinenti), con indicazione dei presupposti;
7. i tempi medi di intervento sulle chiamate di emergenza nelle fasce orarie considerate;
8. l’andamento degli episodi (aggressioni, risse, minacce, porto abusivo di armi) prima e dopo, al fine di escludere che la misura produca unicamente una redistribuzione spaziale del rischio.

Se si ritiene che la pubblicazione analitica non sia compatibile con esigenze investigative o di sicurezza, va spiegato in modo puntuale quali componenti non siano divulgabili e perché, rendendo comunque disponibile una sintesi aggregata idonea a fondare un controllo civico informato, poiché la fiducia istituzionale, in uno Stato costituzionale, non si fonda su enunciazioni performative ma su trasparenza, tracciabilità e verificabilità. In definitiva, la questione non è se la Prefettura e la Questura “reagiscano” agli eventi – ciò avviene, ed è doveroso – ma se essi abbiano predisposto un modello di prevenzione capace di arrivare prima, e se siano disponibili a sottoporlo a un criterio pubblico di responsabilità per evitare che la sicurezza delle persone sia soggetto di atti formalmente corretti ma sostanzialmente non dimostrabili.

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