Per risolvere il rebus sull’oro italiano torniamo alle origini: a quando Bankitalia era davvero nostra
È possibile risolvere il problema dell’oro della Patria con una sottospecie di sillogismo? Pensiamo al celebre fondamento della logica aristotelica: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, ergo Socrate è mortale. Nel caso dell’oro potrebbe funzionare così: la Banca d’Italia possiede l’oro, l’Italia possiede la Banca d’Italia, ergo l’Italia possiede l’oro. Potrebbe sembrare un giochino, ma in realtà ha basi giuridiche molto più solide rispetto all’idea di riportare a casa le riserve auree attraverso il sistema della cosiddetta interpretazione autentica.
Infatti, l’interpretazione autentica consiste nel chiarimento del senso da attribuire a una norma previgente (di dubbio contenuto) effettuato dallo stesso legislatore che l’ha emanata. Sennonché, la proprietà di un bene non si acquista con una legge siffatta, ma con una compravendita o con altro valido titolo traslativo. La domanda giusta è: chi ha comprato l’oro italiano?
Le circa 2.450 tonnellate d’oro attualmente detenute dalla Banca d’Italia sono state acquisite in un lunghissimo arco di tempo da un ente di diritto pubblico (Bankitalia, appunto) le cui quote di partecipazione appartenevano, quantomeno fino ai primi anni Novanta del secolo scorso, a enti pubblici.
Ora, secondo l’interpretazione classica, ma anche secondo la Direttiva CE 18/04, l’ente di diritto pubblico è connotato dal fatto di soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale. Non solo. Gran parte di quell’oro (il grosso dell’attuale “malloppo”: non meno di 2.000 tonnellate) venne comprato, a partire dal 1951 e fino al 1960, dall’Ufficio Italiano Cambi, un ente (poi soppresso) strumentale della Banca d’Italia, ma che operava per conto e sotto la vigilanza del Ministero del Tesoro.
Insomma, sia l’Ufficio Italiano Cambi che la Banca d’Italia hanno sempre agito nell’interesse della collettività nazionale anche quando accumulavano oro nei propri, o in altrui, caveau. Poi, però, come a tutti noto – pur restando istituto di diritto pubblico per previsione normativa e statutaria – la Banca d’Italia ha finito per essere “posseduta” pro quota da varie banche private (oggi prevalentemente grandi gruppi bancari e assicurativi).
Ora, alla fatidica domanda (chi ha comprato quell’oro?), ragionando da azzeccagarbugli, Via Nazionale potrebbe rispondere: l’ho comprato io, quindi è mio. In effetti, il raro metallo è stato acquistato da enti di diritto pubblico, cioè soggetti dotati di personalità giuridica, capaci di essere centri di imputazione di diritti e doveri e quindi, tra l’altro, di acquistare la proprietà di beni mobili e immobili. Da questo punto di vista, se l’oro è stato acquistato dalla Banca d’Italia (o dall’Ufficio Italiano Cambi che poi lo ha trasferito alla prima), non è azzardato sostenere che l’oro sia della Banca d’Italia.
E allora come si fa? C’è una strada molto lineare, giuridicamente praticabile anche alla luce del diritto europeo, e peraltro già sperimentata dal nostro Paese: nazionalizzare la Banca d’Italia. Il percorso fu tentato con la legge n. 262 del 2005, che prevedeva, all’articolo 19, comma 10, nel giro di tre anni, il ritorno in capo allo Stato o ad altri enti pubblici delle quote di partecipazione della banca ancora possedute da privati. Nessuno si curò di dare attuazione a quanto previsto da tale normativa. Anzi, il governo Letta, con poche righe inserite nel decreto-legge n. 133 del 30 novembre 2013, abrogò la riforma voluta da Tremonti.
Possiamo dunque affermare che un modo per risolvere una volta per tutte il rebus sull’oro italiano esiste, ed è tornare alle origini: a quando cioè la Banca d’Italia era “d’Italia” davvero, non solo di nome ma anche di fatto. Se la nostra Banca centrale fosse ricondotta integralmente nell’alveo proprietà pubblica, tutti i suoi beni e le sue proprietà, ivi compresi i lingotti di cui oggi tanto si parla, resterebbero formalmente nella sua disponibilità ma transiterebbero, quanto alla titolarità ultima, in capo allo Stato italiano.
Infine, la riforma con cui dirimere una volta per tutte la faccenda dell’oro non sarebbe solo relativamente semplice (a condizione di salvaguardare l’indipendenza funzionale della banca centrale, come richiesto dai trattati europei), ma anche elegante e ineccepibile sotto il profilo del diritto italiano ed europeo.
A meno che non si voglia obiettare che in questo modo si attribuirebbe l’oro a un’autorità pubblica, con rischi per l’affidabilità, la credibilità e l’indipendenza del famoso “sistema”. Obiezione risibile: perché mai gli attuali soci privati della Banca d’Italia dovrebbero essere in grado di garantire l’indipendenza e l’oculato impiego delle risorse auree italiane e lo Stato italiano invece no? In realtà, come spesso accade, la morale della vicenda è un’altra: si preferisce tenere i poteri pubblici – e cioè, in ultima analisi, i cittadini da cui quei poteri traggono legittimazione – lontani dalle stanze dei bottoni. Soprattutto quando quei bottoni sono d’oro.
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