Dal gruppo Kepler-452 a Milo Rau: il teatro della realtà porta testimoni e non attori sul palco
Uno delle novità più evidenti del teatro nel XXI secolo è la frequenza crescente con la quale fa ricorso a non attori, che per altro non sono quasi mai dilettanti o amatori nel senso tradizionale dei termini. In particolare, sul versante del cosiddetto “teatro della realtà”, si verifica il ricorso sistematico a quello che possiamo chiamare l’attore testimone.
Si tratta di un non professionista che va in scena (di solito accanto a professionisti) per interpretare se stesso e raccontare la storia reale, piccola o grande, quasi sempre di violenza, sopraffazione, ingiustizia, di cui è stato protagonista, vittima o testimone appunto.
Penso, ad esempio, ai non attori del regista svizzero Milo Rau, che nei suoi spettacoli “riattiva” creativamente episodi della storia europea o mondiale recente: dagli eccidi in Rwanda o in Congo al processo moscovita contro le attiviste Pussy Riot, al processo farsa dei coniugi Ceacescu in Romania, ecc.
O ai non attori di Lola Arias, regista e attrice argentina, ormai di casa in Europa e vera e propria capofila dell’operazione che viene chiamata re-enacting life, la quale in Atlas des Kommunismus (2016), ad esempio, ha ricostruito la storia della DDR dal dopoguerra a oggi, portando in scena donne di diverse generazioni che l’hanno vissuta in momenti, ruoli e a livelli differenti. E ancora: il collettivo tedesco Rimini Protokoll e uno dei loro registi, Stefan Kaegi, che in Granma-Metales de Cuba (2019) ha raccontato la rivoluzione cubana, e il suo “tradimento”, con le voci e i corpi di persone di diverse generazioni (ma appartenenti a pochi gruppi familiari) che l’hanno combattuta, difesa, subìta, criticata, superata.
Fra gli esempi italiani di qualche tempo fa, vengono in mente il meraviglioso Vangelo di Pippo Delbono (2016), diventato anche un film, in cui l’apparizione in scena (e in video) di alcuni migranti veniva raddoppiata, in molte repliche, da una loro più massiccia presenza in sala fra gli spettatori; Mario e Saleh (2019), di Saverio La Ruina di Scena Verticale (Castrovillari), su sua drammaturgia, in cui la parte dell’immigrato nordafricano che convive forzatamente sotto la tenda con un calabrese, dopo un terremoto, era interpretato da un vero migrante maghrebino (Chadli Aloui).
Ma vorrei parlare soprattutto dei lavori del gruppo Kepler-452 (fondato e guidato da Enrico Baraldi e Nicola Borghesi), che può essere ormai considerato il capofila del reality trend nel nostro Paese.
I suoi spettacoli si avvalgono spesso di non professionisti presi dalla realtà (loro preferiscono chiamarli attori-mondo), per farne i protagonisti di inchieste (sull’amore, ad esempio, nei Comizi d’amore, dal 2017), oppure per calarli dentro la finzione drammatica, come ne Il Giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, (2018), dove al posto di Ljuba e Gaiev di Cechov c’era una coppia di anziani sfrattati a Bologna dalla loro precaria abitazione dopo trent’anni e costretti a una ancor più precaria esistenza da senza tetto.
In F-Perdere le cose (2019), la vicenda dolorosa di un migrante clandestino, in perenne ricerca del permesso di soggiorno, raccontata da due attori, culminava con la sua (attesa e quasi sempre mancata) epifania finale, da contrattare ogni volta con la locale Questura.
Del 2022 è Il Capitale-Un libro che non abbiamo ancora letto, in cui il grande testo di Marx, più attuale che mai nonostante tutto, veniva raccontato attraverso la presenza, le storie e le testimonianze di un gruppo di operai della GKN di Firenze, un’azienda i cui dipendenti sono stati licenziati in blocco con una semplice e-mail nel luglio del 2019.
Nella primavera di quest’anno ha debuttato un nuovo lavoro (A place of safety-Un viaggio nel Mediterraneo centrale), adesso in tournée per la seconda stagione. Si tratta del risultato teatrale di un’inchiesta su “uno dei fenomeni più drammatici degli ultimi anni: la tratta migratoria più letale al mondo, un grande rimosso collettivo della civiltà europea”.
L’inchiesta ha compreso, fra l’altro, la permanenza di Baraldi e Borghesi a bordo della nave Sea-Watch 5, in missione nel Mediterraneo, per quasi cinque settimane, durante le quali l’equipaggio ha soccorso e sbarcato in un “posto sicuro” (La Spezia) 156 persone, e l’incontro con operatori umanitari di Sea-Watch e di Life Support, la nave di Emergency. Questi operatori sono diventati, insieme allo stesso Borghesi, i protagonisti dello spettacolo, dove “recitano” se stessi in una drammaturgia che compone le testimonianze raccolte, riguardanti dieci anni di soccorso nel Mediterraneo, nel racconto delle tappe di un’unica missione.
Nello spettacolo vediamo i soccorritori (e Borghesi, con i suoi dubbi) ma non i soccorsi, cioè i migranti, che è molto difficile se non proprio impossibile, con le normative vigenti, portare in scena.
Ma questa assenza diventa suo malgrado il sintomo di una difficoltà di fondo: quella riguardante la (im)possibilità di un incontro reale con l’Altro, sulla paura del quale poggiano le disumane politiche italiane ed europee in tema di migrazioni e non solo.