Emilia Romagna, quando la salute si cura come in Amazzonia: ecco il primo master per “agenti di comunità”
Manaus, nord del Brasile: la porta per l’Amazzonia, la riva sinistra del Rio Negro. Un’equipe medica locale ogni giorno guada il fiume e raggiunge le popolazioni. Qui piccoli centri urbani e villaggi si succedono, i popoli indigeni vivono tra acqua e foresta. Il fiume è un’autostrada su cui sfrecciano le barche di medicina di base. A bordo, gli agenti di salute comunitaria diffondono nel territorio le tecniche di cura. Figure ibride accorciano le distanze tra paziente e istituzioni. Professionisti del territorio integrano medicina tradizionale e saperi locali. A Parma, circa 9000 km a est di Manaus, il primo master in Salute Collettiva d’Italia cerca di fare altrettanto. “In ogni territorio esistono gli invisibili, gli esclusi, e sono le istituzioni a doverli raggiungere”, spiega la sociologa e direttrice del master Vincenza Pellegrino. “Con un approccio anti-coloniale che riconosca la pluralità della cura”.
In Emilia la sanità guarda all’Amazzonia
In Emilia-Romagna non ci sono comunità indigene isolate. Non c’è la più grande foresta tropicale del mondo. Non ci sono le “barchette mediche” e il grande affluente amazzonico. Ma presto, proprio come in Brasile, ci saranno gli agenti di comunità: “Antropologi, infermieri, psichiatri: sulla loro formazione pregressa il master innesta l’idea di una cura negoziale”, racconta Jacopo Gibertini, filosofo iscritto alla prima edizione. “Che il paziente abbia fatto auto-diagnosi con un chatbot o si voglia curare anche con erbe e preghiere non ci deve far sentire minacciati: i sanitari possono accogliere il suo sentire e uscirne arricchiti”. È un processo in cui pazienti, caregiver, istituzioni e associazioni del territorio collaborano attivamente. La cura, così, diventa un dialogo. Per impararlo, molti iscritti tra novembre e dicembre sono andati per la prima volta in Brasile, dove il sistema sanitario è pubblico proprio su modello di quello italiano.
Prevenzione, una scelta anche economica
Tornati in Italia, ognuno di loro ha portato nuove conoscenze nelle istituzioni del proprio territorio. C’è chi insegna all’Università, chi lavora nelle asl, chi opera nelle associazioni locali. “Sono pratiche di prossimità che si sviluppano anche nei luoghi di salute già esistenti”, specifica Pellegrino. L’idea è che un investimento nella tecnologia lieve, cioè il saper fare collettivo coordinato dallo stato pubblico, sia meno costoso rispetto “allo sviluppo infinito delle biotecnologie e alla cura del problema solo una volta divenuto acuto”. Per questo, in un contesto di sottofinanziamento strutturale del sistema sanitario nazionale e di crisi diffusa, operatori orientati alle cause e non solo alle conseguenze dei malesseri “sono una risposta preventiva anche dal punto di vista economico”.
In Italia migliaia di persone arrivano ogni anno via mare. Sono uomini, donne e bambini che nel viaggio perdono tutto. Parenti, affetti, parte della propria identità. Spesso, anche la speranza. Arrivano provati dalla fame e dalla sete, feriti dal sole e dalle violenze della rotta. “Una cura che non consideri che il Mediterraneo è un dispositivo violento non può funzionare”, spiega la sociologa. “Se non si concettualizza cosa sia la migrazione, si rischia di dare diagnosi individuali di dissociazione a persone che in realtà stanno reagendo ad ingiustizie storiche e ad esperienze traumatiche collettive”. Comprendendo la natura collettiva e storica dei fenomeni, la medicina si può rivolgere alle cause dell’‘ammalamento’ e non limitarsi a ridurre i danni.
Il master: medicina e scienze sociali per rafforzare il welfare
È ciò che fanno Maria Inglese, medico psichiatra e psicoterapeuta dell’Ausl di Parma, e Lucrezia Travella, antropologa dell’Università Bicocca di Milano, entrambe iscritte alla prima edizione del master. Insieme conducono un progetto di etnopsichiatria che si occupa di rendere evidenti le discriminazioni razziali e le differenze etniche nel contesto della salute mentale. Anche in questo caso le formazioni biomediche si integrano alle scienze sociali, considerando la persona nella sua interezza e nel suo contesto. Il lavoro si sviluppa nelle realtà già esistenti a Parma, dagli ospedali alle cliniche fino alle associazioni come Ciac, realtà impegnata nell’inclusione sociale per le persone migranti che ha ospitato gli operatori e le operatrici del master.
Così il sistema sanitario, secondo gli iscritti, si cambia da dentro. Pellegrino, che ha fondato il master e dirigerà anche la seconda edizione, ne è convinta: “L’Italia è già ricca di posti pubblici in cui ancora si sogna uno stato sociale forte. Bisogna solo legittimarli”. Gli operatori di comunità collaborano con questi luoghi, ascoltano le storie di chi li abita e li anima, lavorano e studiano al loro interno. Perché “una cura meno oppressiva, più lenta e più negoziale, fa sentire meglio sia i lavoratori, sia gli utenti”. Nel primo anno il master ha selezionato otto sedi residenziali, e intende proseguire in questa direzione. Con l’idea che la formazione e la pratica della cura non avvengono solo nelle aule universitarie, ma sono immerse nei contesti reali, a contatto con le problematiche quotidiane, i conflitti sociali e i saperi locali, inclusi quelli ancestrali ed ecologici. In Brasile come in Italia.