Cisgiordania, resistenza o terrorismo? Tre palestinesi rischiano fino a 12 anni di carcere (a L’Aquila)
Dove comincia il terrorismo e dove finisce la resistenza, magari disperata ma legittima, ai coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania con violenza crescente? Sono davvero come i civili che vivono entro i confini di Israele, questi coloni spesso armati fino ai denti? Nel silenzio generale, venerdì 19 dicembre, la Corte d’assise de L’Aquila deve decidere su un processo che chiede di rispondere a queste e ad altre domande fastidiose, ma purtroppo ineludibili. Perché in Palestina l’occupazione va avanti, anzi Israele vuole colonizzare almeno in parte anche Gaza e qualcuno probabilmente resisterà. Anche con le armi. Anche se a noi non piace.
La Procura distrettuale aquilana, sulla base di indagini della polizia, ha chiesto la bellezza di dodici anni di reclusione per l’imputato principale, Anan Kamal Afiff Yaeesh, 38 anni. È un dirigente della Brigata di Tulkarem che in qualche modo fa capo alle Brigate dei Martiri di Al Aqsa e dunque appartiene almeno culturalmente al mondo di Fatah, il partito nazionalista laico che fu di Yasser Arafat e oggi esprime il moderato presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas detto Abu Mazen, ospite qualche giorno fa ad Atreju, anzi presentato in pompa magna da Giorgia Meloni che pure guida un governo sempre più legato a Israele. Non è Hamas, è Fatah. Anche se l’Anp si tiene a distanza dalle brigate.
Non è un frate francescano, Yaeesh. È un combattente e non lo nega. Porta nella carne proiettili israeliani, ha fatto anni di galera, ha subito torture. Da giovanissimo è stato nel corpo di guardia di Arafat, il leader che nel 1993 firmò gli accordi di Oslo con i quali l’Olp riconosceva Israele e che oggi buona parte dei palestinesi più giovani ritengono un mezzo tradimento. Perché dicevano “due popoli due Stati” ma lo Stato di Palestina non c’è ancora. Yaeesh da lì è scappato nel 2013, è stato in Norvegia dove gli hanno dato e poi revocato la protezione umanitaria perché Israele chiedeva l’estradizione, quindi nel 2017 è venuto in Italia e nel 2023 è stato in Giordania, dove ha fatto sei mesi carcere è poi è tornato a L’Aquila, con un permesso di protezione speciale ora sospeso. Per gli altri due imputati, i palestinesi Ali Saji Ribi Irar di 29 anni e Monsour Doghmosh di 30 che pure risiedono a L’Aquila, la pm Roberta D’Avolio ha chiesto rispettivamente nove e sette anni. La Procura non ha ritenuto di dover concedere attenuanti dovute al contesto di un’occupazione illegale.
Nei capi d’accusa non c’è una sola goccia di sangue. Yaesh, Irar e Doghmosh sono accusati di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale, articolo 270 bis del nostro codice penale, reato di pericolo presunto. Il sangue non è necessario per condannarli, è sufficiente che abbiano “programmato” azioni terroristiche. Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono tra le le organizzazioni riconosciute come “terroristiche” dall’Unione europea, questo da solo non basta ma conta. Ci sono poi le chat su Telegram dalle quali emerge che Yaesh e i suoi raccoglievano soldi per la Brigata di Tulkarem e per altre brigate, nell’ordine di qualche decine di migliaia di euro nel 2023; che senz’altro Yaeesh parlava con i suoi compagni e i capi delle Brigate di Al Aqsa laggiù anche dell’acquisto di “fucili” e di “ferro”, di “gruppi suicidi” e “martirio”; che forse progettava un attacco in un insediamento di coloni ortodossi, Avney Hefetz, duemila abitanti, a due passi da Tulkarem, protetto da filo spinato e da un distaccamento militare.
“Preparavano un’autobomba”, questa era l’ipotesi iniziale, per quanto l’esplosione di autobombe non sia modalità tipica della resistenza armata in Cisgiordania, tanto che poi nel processo l’autobomba è sparita. Comunque non è esplosa. Dagli atti sembra chiaro che cercavano solo una macchina. “Questa volta Avney Hefetz deve essere popolata”, si legge in una chat, frase che dimostrerebbe l’intenzione di colpire i civili e non solo i militari. Ma quello è un insediamento protetto, infatti in un altro messaggio Yaeesh scriveva: “Se riesci a entrare con un po’ di fortuna, sarà molto eccellente”. C’è una strada sola, presidiata da militari e uomini armati come l’unico ingresso, come ha spiegato al processo un esperto di quei luoghi, il professor Francesco Chiodelli che insegna Geografia al Politecnico di Torino.
Nel nostro Paese non finisce certamente in galera chi collabora direttamente o indirettamente con il governo israeliano. I numeri di Gaza li conoscono tutti, quasi 70 mila morti in due anni tra cui decine di migliaia di donne e bambini. In Cisgiordania, dove non c’è Hamas, l’Onu dal 7 ottobre 2023 al 13 novembre scorso ha registrato 1.017 vittime palestinesi, compresi 221 minori, a fronte di 59 israeliani uccisi tra civili e militari.
L’attacco a Avney Hefez, dove ovviamente ci sono anche bambini, non è mai avvenuto, tutt’al più dagli atti emerge la condivisione di comunicati che rivendicano attacchi contro militari israeliani, per esempio ad Azzun, non lontano da Qalqilya, nel novembre 2023. Solo in un caso, nella requisitoria scritta, la pm indica come “verosimile” che si tratti di un’azione a Khermesh dove è stato ucciso un colono nel maggio 2023. “Verosimile”. Finché gli obiettivi sono militari, entro certi limiti, il diritto di resistenza è pacifico per il diritto italiano. Come per l’attentato di via Rasella del marzo 1944 contro le truppe tedesche che occupavano Roma.
La vicenda è iniziata nel gennaio 2024 quando Yaeesh è stato arrestato dalla polizia perché Israele voleva l’estradizione. I giudici hanno deciso che non può essere estradato, con tutta evidenza rischia la tortura, ora forse pure la pena di morte e comunque trattamenti che esporrebbero l’Italia davanti alla Corte europea dei diritti umani. Però al momento dell’arresto gli hanno preso i telefoni, la polizia ha analizzato le chat, i giudici hanno deciso di tenerlo in carcere e hanno fatto arrestare anche gli altri due. Con il via libera della Cassazione (sentenza 32712/2024) che ha confermato l’accusa di terrorismo.
Qualche giorno dopo la sentenza della Suprema Corte, il 19 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia, in un parere richiesto dall’Assemblea generale dell’Onu, ha ribadito con fermezza l’assoluta illegalità dell’azione dei coloni che espandono gli insediamenti in Cisgiordania. Per questo l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Yaeesh, ha chiesto alla Corte d’assise presieduta dal giudice Giuseppe Romano Gargarella di dichiarare il non luogo a procedere. “Lo Stato Italia – sostiene il legale di Yaeesh – non può processare gli odierni imputati per azioni compiute nella Cisgiordania illegalmente occupata da Israele, per azioni condotte in danno della potenza occupante, ovvero in danno di quegli stessi militari, coloni e insediamenti la cui presenza è stata qualificata dalla Corte internazionale di giustizia come una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto all’autodeterminazione dei popoli (…). Diversamente opinando, l’Italia starebbe sostanzialmente cooperando con Israele al mantenimento della situazione creata nei Territori palestinesi occupati”. Il non luogo a procedere sarebbe un modo elegante per trarsi di impaccio, la conduzione del dibattimento però è sembrata andare in altra direzione.
Il processo è stato difficile, gli imputati l’hanno seguito da remoto dalle carceri di Terni e Melfi. I testimoni della difesa sono stati quasi tutti esclusi, compresa la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese che senz’altro avrebbe qualcosa da dire sull’occupazione della Cisgiordania. Dall’altra parte, invece, pur avendo escluso gli atti e i verbali di provenienza israeliana, la Corte ha ammesso non un ambasciatore ma una funzionaria dell’ambasciata israeliana a Parigi, intervenuta in videoconferenza con tanto di bandiera con la Stella di David dietro le spalle, per ribadire che Avney Hefetz è un insediamento civile. Ci mancherebbe, bastava Google Earth.
Dei giornali nazionali solo il manifesto si è occupato del processo, alcune reti di solidarietà si muovono per Anan Yaeesh sui social e hanno manifestato a L’Aquila e a Melfi. Piace il palestinese che soffre, se invece si difende o peggio attacca diventa antipatico, meglio guardare da un’altra parte. Una rivista giuridica importante, Sistema Penale, ha pubblicato però lo scorso agosto una nota critica sulla sentenza della Cassazione: “Se la decisione ha il merito di affermare in più occasioni il carattere illegittimo dell’occupazione israeliana, le conclusioni della Corte non sembrano tenere conto di tale illegittimità in almeno due rilevanti passaggi. In primo luogo, i giudici hanno considerato l’azione posta in essere all’interno del Territorio palestinese occupato come un attacco diretto contro Israele, estendendo in modo discutibile la nozione di ‘Stato estero’ fino a ricomprendere territori non riconosciuti (…). In secondo luogo, la Corte ha omesso di considerare la possibilità che l’azione fosse espressione di una forma di resistenza legittima all’occupazione, funzionale all’esercizio del diritto all’autodeterminazione”, scrivono tra l’altro Maria Crippa e Lavinia Parsi.
Le questioni giuridiche sono molto rilevanti, a partire dalla definizione di terrorismo internazionale introdotta dopo l’11 settembre 2001 e allargata ancora con la legge Alfano del 2015, che obiettivamente discrimina i palestinesi. “È terrorismo se l’azione mette in pericolo la sicurezza di uno Stato estero – osserva l’avvocato Rossi Albertini –. E quindi, in nessun caso, un israeliano appartenente ad una associazione terroristica finalizzata a colpire i palestinesi potrebbe essere processato in Italia perché, secondo l’interpretazione fornita dalla Cassazione in questo processo, i palestinesi non hanno uno Stato riconosciuto dall’Onu e nemmeno dall’Italia”, a differenza di 152 Stati membri dell’Onu su 193, tra i quali da settembre troviamo anche Francia e Regno Unito.