La lebbra torna in Europa: segnalati casi in Romania e Croazia. L’esperto: “Effetto degli spostamenti globali delle persone”
Dopo decenni di silenzio, la lebbra – o morbo di Hansen – torna a far parlare di sé anche in Europa. Nelle ultime settimane sono stati segnalati alcuni casi in Romania e un caso isolato in Croazia, riaccendendo interrogativi su una malattia che molti consideravano ormai confinata ai libri di storia della medicina. Le autorità sanitarie rassicurano, ma la notizia ha inevitabilmente alimentato timori. Per capire se ci sia davvero motivo di preoccupazione e cosa significhino queste segnalazioni, ne abbiamo parlato con il professor Roberto Cauda, infettivologo, Università Campus Biomedico e consulente per le malattie infettive dell’European Medicines Agency (EMA).
Casi isolati e globalizzazione: c’è un’emergenza?
“La comparsa di casi di lebbra in Europa va letta con grande cautela, evitando ogni tono drammatico – ci spiega Cauda -. La lebbra è una malattia che esiste ancora nel mondo ed è presente in forma endemica in numerosi Paesi. I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità indicano che, già all’inizio degli anni Duemila, la malattia era segnalata in 91 nazioni, con una diffusione maggiore in India, Africa subsahariana e Sud America. In questo contesto, i casi europei non rappresentano un’anomalia inquietante, ma piuttosto l’effetto degli spostamenti globali delle persone. Si tratta di fenomeni isolati, molto rari, che devono indurre attenzione ma non allarmismo. Il rischio per la popolazione europea resta infatti bassissimo, quasi trascurabile, e la lebbra non può essere considerata una minaccia per la salute pubblica nel nostro continente”.
Sintomi lenti e insidiosi: cosa colpisce davvero la lebbra
“Dal punto di vista clinico, è una malattia complessa, con manifestazioni che possono variare notevolmente da persona a persona – continua l’esperto -. Il quadro dipende in larga misura dalla risposta immunitaria del soggetto, che condiziona sia l’evoluzione sia la gravità della patologia. In genere i primi segnali riguardano la cute e il sistema nervoso periferico: lesioni cutanee e disturbi della sensibilità sono tra i campanelli d’allarme più comuni. A rendere insidiosa la malattia è soprattutto il suo decorso lento. Non è una patologia acuta, ma si sviluppa nel corso di anni, talvolta di decenni. Proprio questa lentezza, se la diagnosi arriva tardi, può portare a esiti invalidanti, come perdita della motilità muscolare, anestesia di alcune parti del corpo, fino a danni oculari e cecità”.
Incubazione lunga e diagnosi tardive
Un altro elemento chiave è il lunghissimo periodo di incubazione. Come sottolinea l’infettivologo, “In media si parla di circa cinque anni, ma esistono forme che si manifestano dopo pochi mesi e altre che possono emergere anche a distanza di dieci anni dal contagio. Questo rende la diagnosi più difficile e spiega perché, in alcune aree del mondo, la malattia venga riconosciuta quando i danni sono già avanzati. Oggi, tuttavia, gli strumenti diagnostici non mancano: una volta sospettata, la lebbra può essere confermata attraverso test di natura microbiologica”.
Decisive sono diagnosi precoce e accesso alle cure
Sul fronte delle cure, il messaggio è netto: la lebbra è curabile. “Esistono farmaci efficaci, ma la terapia richiede tempo e rigore – continua Cauda -. Il trattamento dura almeno un paio d’anni e prevede sempre l’uso di più farmaci in associazione, mai in monoterapia. Se la diagnosi è precoce e la terapia viene avviata prima che compaiano le forme più gravi, la prognosi è favorevole”. Nelle aree più povere del mondo, però, il problema non è tanto l’inefficacia dei farmaci quanto il loro utilizzo tardivo: “I medicinali non possono infatti cancellare le lesioni invalidanti già presenti. Da qui l’importanza – conclude Cauda – di garantire a livello globale l’accesso alle cure: un intervento tempestivo può migliorare la prognosi e incidere profondamente sulla qualità della vita di milioni di persone”.