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Penso a Narges, arrestata, e Sedigheh, impiccata. E alla nostra memoria corta sull’Iran

L'arresto di Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace, è solo l'ultima ferita aperta. Cosa fa un regime di fronte a un simbolo mondiale di coraggio? Risponde con la forza bruta
Penso a Narges, arrestata, e Sedigheh, impiccata. E alla nostra memoria corta sull’Iran
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Sono qui, ancora una volta, a fissare il vuoto. E ancora a scrivere le stesse cose. Anno dopo anno, le mie dita scorrono su queste tastiere, componendo resoconti che si assomigliano in modo disarmante: denunce, necrologi, appelli. Troppi. Come un orologio rotto, il progresso in ogni angolo del mondo non fa che acuire l’immobilità del solo luogo che sembra rifiutare la civiltà: la Repubblica Islamica dell’Iran. Lì, il tempo è bloccato in un eterno, glaciale presente.

L’ultima ferita aperta non è solo una notizia, è un insulto diretto alla coscienza globale: l’arresto della mia sorella di penna e di lotta, Narges Mohammadi. Premio Nobel per la Pace. E cosa fa un regime di fronte a un simbolo mondiale di coraggio? Non riconosce l’onore, ma risponde con la forza bruta. La rinchiude, ancora.

Il suo ritorno in carcere è stato un atto di brutale annientamento della dignità. Non un “fermo” formale, ma un’aggressione in pieno giorno a Mashhad. Narges era lì per un dovere morale: commemorare l’avvocato pro-diritti Khosrow Alikordi. I testimoni hanno descritto scene agghiaccianti: Narges è stata picchiata sulle gambe e afferrata per i capelli, trascinata via come un oggetto e gettata nell’oscurità.

Questa è la risposta del regime: la violenza fisica è l’unica moneta che conoscono. Stanno cercando di spezzare una donna che ha avuto il coraggio di descrivere la loro crudeltà nel suo libro, White Torture. L’obiettivo è annientare l’ultima scintilla di speranza.

Ma in questo frastuono, c’è un silenzio ancora più grave, che rivela la nostra ipocrisia: quello delle vite perse ogni giorno, ignorate dai titoli di testa. Le donne iraniane non sono vittime passive. Sono guerriere che vivono in una trincea costante. Devono negoziare il velo, il passo, la parola, ogni giorno, sapendo che la loro identità è sotto sorveglianza. Il loro coraggio non si manifesta solo nelle proteste, ma nell’atto quotidiano di alzarsi e di esistere in un sistema che le vuole invisibili e sottomesse. Hanno mostrato una forza indomita che ha ispirato il mondo.

Ricordo a settembre 2022, quando il mondo intero trattenne il respiro per la morte di Mahsa Amini. Ci sentimmo tutti fratelli e sorelle per un attimo, uniti sotto lo slogan “Donna, Vita, Libertà”. Poi, ci siamo distratti forse. Abbiamo spento i riflettori. Non abbiamo voluto capire che le Mahsa sono innumerevoli. E in quel vuoto di attenzione, l’orrore ha continuato il suo macabro conteggio.

All’alba del 13 dicembre 2025, nella prigione di Urmia, un’altra donna curda è stata impiccata: Sedigheh Ghorbani. Ventinove anni. Sedigheh è stata giustiziata per un’accusa terribile (aver ucciso sua figlia di 4 anni), ma la sua fine è l’ennesima applicazione del principio della Qisas (la “legge del taglione”). La Qisas è un concetto chiave della giurisprudenza iraniana: “occhio per occhio”. Un sistema che non cerca riabilitazione, ma vendetta legale. Tuttavia, esiste una via di scampo: la famiglia della vittima può accettare il Diyeh, o “prezzo del sangue”, un risarcimento economico in cambio della grazia.

Ed è qui che l’ingiustizia raggiunge il suo apice: il prezzo del sangue di una donna vale, legalmente, la metà di quello di un uomo.
Questo non è solo un dettaglio legale; è l’essenza della discriminazione. Significa che, in termini di valore umano e risarcimento, la vita di una donna vale meno. Significa che il sistema giudiziario è costruito per sminuire il valore stesso delle nostre sorelle. Con l’esecuzione di Sedigheh, il contatore ha raggiunto un numero che ci copre di vergogna: 59 donne giustiziate solo nel 2025.

Penso a Narges, picchiata e rinchiusa. Penso a Sedigheh, impiccata e dimenticata, la cui vita aveva un valore dimezzato per la legge. E in mezzo, a tutto questo la nostra memoria corta e la nostra indifferenza lunga. Dobbiamo urgentemente trasformare questa rabbia in una voce unica e inarrestabile, non solo fino al rilascio di Narges, ma fino a quando il regime non sarà costretto a lasciare il posto alla libertà e alla dignità per tutte.

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