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“Io cappellano del carcere dove si è suicidato un educatore dico: non si va avanti così. Senza rieducazione, si preparano solo nuovi delinquenti”

Intervista a don Roberto Musa, cappellano della casa circondariale di Cremona: "Chi lavora in carcere è continuamente preoccupato di non svolgere appieno la sua missione"
“Io cappellano del carcere dove si è suicidato un educatore dico: non si va avanti così. Senza rieducazione, si preparano solo nuovi delinquenti”
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“Non si può andare avanti a dare la tachipirina ha chi ha il tumore. Entro in carcere dal 2010. Da allora sono passati governi di ogni colore politico ma non so quanto, ci sia in Parlamento, la volontà trasversale di agire su quanto avviene dietro le sbarre. Questa non è un’emergenza ma un problema strutturale: le celle scoppiano, i funzionari sono oppressi dalla burocrazia, non siamo attrezzati ad affrontare le persone detenute a causa delle dipendenze da nuove sostanze, spesso manca un accompagnamento per il post detenzione”.

A parlare nelle ore in cui il Vaticano celebra il Giubileo dei detenuti, è don Roberto Musa, il cappellano della casa circondariale di Cremona, finita sotto i riflettori nelle ultime settimane per il suicidio di un educatore giuridico-pedagogico che si è impiccato nel bagno della struttura (il quarto nel 2025 che si aggiunge ai 71 detenuti che si son tolti la vita quest’anno).

Don Roberto, parroco a San Daniele e Pieve D’olmi, insegnante di religione al liceo “Anguissola” di Cremona, fondatore della cooperativa “Fratelli tutti” dove operano ex detenuti e disabili, sa che il caso dell’educatore è il pretesto per denunciare ancora una volta quanto sta avvenendo nelle galere. Ha iniziato a frequentare quel luogo da diacono e ora da quindici anni conosce uno ad uno gli uomini condannati ma anche chi lavora dietro le sbarre. E sa che Cremona non è né meglio né peggio di altre strutture.

Il tema del sovraffollamento resta centrale. A Ca’ del Ferro, dove ci sarebbero 390-400 posti, si è arrivati a ospitare 600 persone che arrivano da ogni parte della Lombardia. Nulla di nuovo – dirà qualcuno – se non fosse che don Musa lega questa situazione al carico per il personale.

“Abbiamo solo cinque educatori, una mediatrice culturale, psicologhe e criminologhe e una direttrice in missione da Bollate. È uno staff giovane, impegnato, altamente professionale che affianca un personale di polizia penitenziaria che è stato anche incrementato con due nuovi funzionari. Ma sa qual è il limite? I detenuti sentono il bisogno di parlare con gli operatori che sono gravati dalla burocrazia; tante ore di scrivania che limitano il colloquio con le persone”.

Eccolo uno dei cortocircuiti del carcere. Chi lo frequenta come don Roberto sa che il vero dramma è quello della “domandina” (richiesta per ottenere ogni servizio) che resta inevasa; del desiderio di iniziare a lavorare all’esterno secondo l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario ma di non poterlo fare perché la pratica resta sulla scrivania.

Basti pensare che l’educatore che si è suicidato aveva in carico ben tre sezioni: “Ha sempre lavorato con noi. In una realtà complessa, era riuscito a costruire belle relazioni umane. Non riesco a dare una risposta a quanto è accaduto e non è rispettoso darsela. Posso solo dire che per una persona che può avere delle fragilità non è facile vivere in un contesto in cui si è sempre in contatto con la sofferenza”. Il cappellano ha chiara la diagnosi: “Come tutte le carceri lombarde c’è la continua preoccupazione, siamo consapevoli di non riuscire ad assolvere a pieno alla missione ricevuta perché non ci sono le forze”.

Don Musa che è affiancato anche da don Graziano Ghisolfi e suor Maria Grazia della Caritas, solleva un’altra questione: “Abbiamo sempre più detenuti in situazioni di estrema povertà e persone con problemi psichiatrici. Sono aumentati i giovani che finiscono dietro le sbarre a causa delle nuove dipendenze ma non siamo attrezzati per queste persone, il carcere non è il loro posto. Hanno bisogno di percorsi di un altro tipo: è gente che è malata. A questi vanno aggiunti coloro che arrivano da noi con la scabbia: per assurdo hanno bisogno del carcere per superare la rigidità dell’inverno. E poi ci sono gli stranieri non regolari sul territorio, dietro di loro non c’è nulla, le loro famiglie sono lontane o inesistenti e non hanno nemmeno la possibilità di accedere alle misure alternative perché non hanno domicilio”.

La fotografia del cappellano conclude prendendo in considerazione anche i sex offender o i collaboratori di giustizia che vivono in sezioni separate: “In questi casi dobbiamo lavorare sul dopo, sull’orizzonte post carcere”.

A Cremona come in tante altre realtà, nonostante la diminuzione dei numeri a causa della pandemia, ci sono tanti volontari e molte progettualità legate anche all’alfabetizzazione. Ma non basta. “Dobbiamo farci una domanda seria: crediamo ancora nell’articolo 27 della Costituzione che indica la rieducazione come finalità della pena? Non mi sembra che stiamo vivendo quanto dice la nostra Carta”. Parole pronunciate qualche ore prima su “L’Avvenire” dal Vescovo di Crema, don Daniele Gianotti, delegato della conferenza episcopale lombarda per la pastorale carceraria: “Siamo molto lontani da ciò che prescrive la Costituzione. La beffa è che tutte le statistiche mostrano che quanto peggiori sono le condizioni di carcerazione, tanto più alta è la probabilità di recidiva. Se non si cambia registro, le prigioni italiane, anziché restituire alla società persone che hanno cambiato la vita, prepareranno nuovi delinquenti”.

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