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Apollonio Rodio, La lunga notte di Medea (Traduzione di Stella Sacchini)

Una nuova traduzione di Stella Sacchini ci svela il lato più intimo e tormentato della giovane Medea nel poema di Apollonio Rodio
Apollonio Rodio, La lunga notte di Medea (Traduzione di Stella Sacchini)
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Le Argonautiche sono un poema epico alessandrino in quattro libri, 6000 versi e tre proemi. Rievocano l’antichissimo mito degli Argonauti e la spedizione: Giasone, per rientrare in possesso del regno del padre usurpato dallo zio, è costretto a recarsi nella lontana Colchide per riportare di là il vello d’oro; dopo aver radunato il fior fiore degli eroi, salpa da Iolco a bordo della famosa nave Argo; arrivato in Colchide, il re Eeta si dichiara pronto a cedergli il vello, a patto che superi una prova difficilissima, quasi impossibile; ma niente è impossibile all’amore – Medea, figlia di Eeta, maga ed esperta erborista, si innamora follemente dell’eroe greco e decide di aiutarlo a superare la prova, tradendo così il padre e la famiglia.

La Medea di Apollonio è una Medea molto più giovane rispetto alle altre varianti del mito, un’eroina in formazione che non ha ancora oltrepassato il confine sottile, a senso unico, tra l’adolescenza e la giovinezza, tra il suo mondo d’origine, barbaro, dominato dalla magia e dall’irrazionale, e un mondo nuovo, quello greco, patria del logos. L’amore, come nella migliore tradizione platonica, è spinta, anelito, impulso all’attraversamento. E Giasone, suo malgrado, incarnazione inconsapevole e passiva di questo slancio. Il Giasone di Apollonio appare statico, privo di quella ferocia vitale che contraddistingueva l’eroe omerico, teso all’isolamento più che all’auto-affermazione, senza ambizioni di gloria.

S.S.

Argonautiche, dal libro III

Fitto e denso era il sonno che scioglieva le pene a Medea,
stesa sul letto. Ma sogni infausti messaggeri di inganni
e morte – sogni di anime in pena – non le davano tregua.
Tutta tremante e spaventata saltò dal letto – all’intorno
soltanto i muri della sua stanza – a stento riprese fiato,
l’anima intanto le tornava nel petto, e poi gridò forte:
“Povera me, che sogni terribili mi danno il tormento!
Temo che il viaggio degli eroi porterà gravi sciagure.
Per lo straniero il cuore nel petto batte come impazzito”.
Disse e s’alzò di scatto a spalancare le porte alla stanza,
scalza e mezza nuda. Passò la soglia del cortile,
davanti casa si fermò a lungo, a fissare il vestibolo,
paralizzata dalla vergogna. Apriva un fitto viavai:
fuori dalla sua stanza e poi dentro di corsa pentita.
Poveri piedi, persi appresso a mille vani andirivieni.
Quando partiva, la vergogna la costringeva a fermarsi;
stretta dalla vergogna, la rendeva ardita il desiderio.
Tre volte andò, altre tre volte indietro tornò. La quarta volta
presa da svenimento cadde sul letto, tutta sconvolta.
Tenebre sopra la terra portava e spargeva la notte:
marinai in mare miravano l’Orsa e le stelle d’Orione,
viandanti in viaggio e guardiani sognavano il sonno soave.
Come una spessa coltre, il sonno avvolgeva pure la madre
orfana dei propri figli. Cessati i latrati dei cani,
niente più echi di suoni e frastuoni. A regnare il silenzio:
solo avvinghiava la notte, notte nera sempre più nera.
Ma la notte non distillava sonno di miele a Medea,
presa tra mille pensieri e il desiderio dello straniero,
stretta da folle paura dei tori e di un destino crudele
che l’avrebbe distrutto, mentre lottava sul campo di Ares.
Dentro al suo petto il povero cuore batteva impazzito.
Lacrime di compassione sgorgavano a fiotti dagli occhi;
dentro una pena la corrodeva senza darle mai tregua,
sotto pelle a fuoco lento la consumava, fino ai nervi,
quelli sottili, all’osso basso del collo, negli interstizi
dove il dolore si insinua pungente quando gli Amori
ficcano frecce di patimenti dentro al petto dell’uomo.
Ora pensava di consegnargli il filtro che doma i tori;
ora pensava di non farlo più, ma di morire anche lei.
Subito corse a cercare il cofanetto che custodiva
tutti i suoi filtri – filtri che uccidono e filtri che curano.
Sulle ginocchia lei l’appoggiava, mentre afflitta versava
lacrime a fiotti sui seni – dei fiumi gonfi e senza freni –,
stretta da tristi pensieri sulla sua misera sorte.
Solo un desiderio: scegliere i filtri mortali e inghiottirli.
Povera donna, smaniosa di tirarli fuori, scioglieva
già i lacci del cofanetto. Ma tutto d’un tratto la strinse
dentro un terrore tremendo dell’odioso regno dei morti.
Muta restò a lungo, e piena d’orrore. Davanti ai suoi occhi
come visione sfilava la vita, e i suoi dolci piaceri;
e ricordava bellezza e gioia, le delizie dei vivi.
Quando poi si levò, il sole le apparve più dolce di prima.

Apollonio Rodio (Alessandria 290-215 a.C.) fu il più illustre – e infedele – allievo di Callimaco. Fece parte del gruppo di intellettuali alessandrini del Museo, fu direttore della Biblioteca e precettore del futuro Tolomeo III Evergete, terzo sovrano della dinastia tolemaica.

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