“Influencer depressi, in ansia e con pensieri suicidi molto più degli altri lavoratori”: il nuovo studio e il parere dell’esperto
Depressi, isolati e persino con pensieri suicidi. Un nuovo studio di Creators 4 Mental Health e Lupiani Insights & Strategies evidenzia come i creatori di contenuti abbiano problemi di salute mentale molto più della popolazione generale. La ricerca, pubblicata dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health e basata su 542 creator nordamericani, rivela un quadro complicato ancor più da pressioni finanziarie, instabilità degli algoritmi e assenza di confini tra vita privata e lavoro. Il 52% del campione coinvolto segnala ansia, il 35% ammette di soffrire di depressione e il 62% soffre di burnout occasionalmente o spesso. Stando ai risultati dello studio, la professione del creatore di contenuti non dispone delle infrastrutture per la salute mentale presenti nei settori occupazionali tradizionali. Questo, malgrado sia il motore di un’economia da 200 miliardi di dollari. Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con il professor Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta presso il Policlinico Gemelli di Roma.
Perché i creator risultano particolarmente vulnerabili rispetto ad altre categorie professionali?
Un creator è inevitabilmente molto connesso, e le relazioni online pur essendo assolutamente reali, non sono “intere”. Le emozioni, cioè, sono rappresentate, e non presentate. Questa castrazione di contenuti autentici viene in qualche modo supplita con la tendenza a interpretare di più, e così facendo si apre la strada al pensiero paranoico. Aggiungiamoci una tendenza alla dissociazione che tutti noi abbiamo quando siamo davanti a uno screen digitale, e il risultato è la possibilità di insorgenza di sintomi psicopatologici in chi sta molto online. Ma c’è di più.
Ovvero?
Chi fa l’influencer o il creator ha dei motivi personali per fare questo lavoro che dà, oltre ai guadagni, una visibilità narcisistica molto potente. Credo però che parte della psicopatologia che colpisce questa categoria possa essere precedente e non conseguente al tipo di lavoro che fa.
Quindi ci sarebbe già una predisposizione di base?
Penso che i sintomi abbiano sempre a che fare con qualcosa che non ha funzionato nelle prime relazioni con l’ambiente quando si era bambini. Ad esempio, per chi ha un problema di ritiro sociale, questa professione può diventare un modo per rifarsi, una strada molto ambiziosa per “guarire” e raggiungere un equilibrio più gratificante.
Tra le pressioni più grandi che diversi creator hanno riscontrato c’è la performance dei contenuti. La necessità di dover sempre performare – in qualsiasi ambito – è uno dei mali dei nostri tempi?
Le performance sono conseguenti alle aspettative. Le prime con cui ci troviamo a fare i conti sono quelle genitoriali, perché ancor prima di nascere esistiamo nell’immaginazione dei genitori. Le aspettative sono tossiche, anche se inevitabili.
Si può parlare di una forma di dipendenza dalla performance digitale?
Sì, e dipende dall’autostima, che è percezione del valore di sé.
Come si può aumentare questo valore?
Sentendosi amati dopo aver deluso le aspettative. Se, per esempio, un ragazzo prende per la prima volta un brutto voto a scuola non va punito, va compreso con la massima tenerezza e amato proprio quel giorno. È lì che l’autostima cresce.
Perché abbiamo così paura del fallimento?
Anche il fallimento viene dalle aspettative. Se uno ce la mette tutta ha diritto di fallire e di non riuscire. Più autostima si ha, più ci si può permettere di fallire.
Le piattaforme social dovrebbero avere dei protocolli di intervento o di segnalazione per creator in crisi psicologica?
Servono attenzione e rigore nei confronti del bullismo. Tutti, soprattutto i più giovani, si muovono nella dicotomia popolarità-vergogna, laddove la vergogna corrisponde – in particolar modo per gli adolescenti – a un crollo a livello di identità la cui intensità è proporzionale alla visibilità.
I giovani che vogliono fare i creator vanno istruiti sui rischi psicologici cui possono andare incontro?
Il creator è un lavoro come gli altri, non è quello che dà dolore mentale. Può darsi che una persona cerchi una soluzione al proprio dolore in un lavoro piuttosto che in un altro, ma non vedo un pericolo specifico nel web. La distanza più sana dai giovani è la fiducia, non il controllo.