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I giovani italiani non vogliono arruolarsi nonostante il martellamento tv: la responsabilità è nell’obiezione

Un sondaggio rivela che la maggioranza degli adolescenti italiani direbbe no all'arruolamento nonostante la propaganda bellicista
I giovani italiani non vogliono arruolarsi nonostante il martellamento tv: la responsabilità è nell’obiezione
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La consultazione Guerra e conflitti proposta dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza a ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni ha il pregio di provare a colmare il vuoto nella ricerca in relazione all’impatto che questi anni di dilagante bellicismo stanno producendo sulla crescita emotiva, psicologica e valoriale degli adolescenti italiani. Sul sito dell’Autorità garante – dove si specifica che il questionario è stato realizzato con la Consulta delle ragazze e dei ragazzi, supportati da un esperto – i temi dell’indagine sono sintetizzati in questi termini: “Come ti informi sulla guerra? Quali emozioni provi davanti alle immagini dei conflitti? Cosa pensi del ruolo della tua generazione nella costruzione della pace?”. Si aggiunge inoltre che attraverso le risposte “ci puoi far conoscere come percepisci la guerra e quale rapporto hai con la violenza, la paura e l’idea di responsabilità”.

Diciamo subito che, in risposta ad un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano che dava notizia della circolare diffusa tra le scuole invitando gli insegnanti a divulgarlo nelle classi, l’Autorità garante ha anticipato un dato della consultazione in corso, da cui si evince che alla specifica domanda “Se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei. Quanto sei d’accordo con questa informazione?”, il 68% dei 4000 adolescenti che hanno partecipato fin qui all’indagine ha risposto sonoramente di no, con una forte prevalenza tra le ragazze (73,6%) rispetto ai ragazzi (60,2).

E dopo quasi quattro anni di ideologia bellicista diffusa attraverso la militarizzazione dei media, che ha trasformato “l’informazione come guerra combattuta con altri mezzi” – secondo la definizione che ne dà Andrea Cozzo nel recente Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina – questo non era affatto un risultato scontato. Anche perché ragazzi e ragazze sulla guerra, questione che emerge come loro preoccupazione principale, continuano ad informarsi prevalentemente attraverso la televisione, medium tradizionale con l’elmetto.

Inoltre, entrando nel merito del questionario – tra questioni importanti e opportune ed altre più discutibili, ossia che meritano di essere discusse magari quando l’indagine sarà pubblicata integralmente – è necessario rilevare che questa domanda ha una dimensione tecnicamente tendenziosa, ossia non neutrale, perché associa esplicitamente il senso di responsabilità all’arruolamento militare per la guerra, rendendo di fatto la risposta contraria – pur espressa dalla grande maggioranza dei partecipanti – sintomo di implicita e sottintesa irresponsabilità. Eppure, le cose stanno esattamente al contrario per diverse ragioni, che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza avrebbe dovuto tenere presenti nella formulazione delle domande.

Proviamo a ricordare le principali, a cominciare dalla Costituzione italiana che ha proprio a fondamento il solenne “ripudio” della guerra (Art. 11), per il quale fare la guerra è etimologicamente ed eticamente ripugnante: dunque è responsabile non parteciparvi, anziché il contrario. Né il dovere di “difesa della patria” (Art. 52) – che pure nelle domande non è citata – implica necessariamente la dimensione militare, perché, più volte, la Corte costituzionale ne ha sancito la possibilità anche attraverso la difesa civile, non armata e nonviolenta (che fonda, tra l’altro, il Servizio civile universale). Anche per questo, già Aldo Capitini proponeva di inserire le tecniche della nonviolenza nell’insegnamento dell’educazione civica a scuola (L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale).

Arruolarsi e partecipare alla guerra, sotto la spinta della propaganda bellica che induce a un malinteso “senso di responsabilità” delle giovani generazioni – come raccontato magistralmente da Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte Occidentale – significa, inoltre, essere indotti ad attivare proprio i “meccanismi di disimpegno morale”, ossia i dispositivi di deresponsabilizzazione rispetto all’uso della violenza, studiati dallo psicologo sociale Albert Bandura, necessari a trasformarsi in strumenti capaci di uccidere e fare cose ripugnanti. Non a caso, un grande educatore all’etica della responsabilità come don MilaniI care, ‘Mi sta a cuore’, c’è scritto sulla porta della canonica di Barbiana – difendendo gli obiettori di coscienza in galera, diceva che di fronte alla guerra ci vuole il “coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni” (L’obbedienza non è più una virtù).

Coraggio che devono avere tutti, a cominciare da chi svolge ruoli educativi e formativi, in questi tempi di rinata “isteria di guerra” (Edgar Morin, Di guerra in guerra): quel 68% di giovani responsabili e sovrani sono una garanzia per il futuro, da non scoraggiare, ma da garantire e coltivare. La responsabilità, oggi più che mai, è nell’obiezione alla guerra, non nell’arruolamento, per cui – se se ne voleva inserire il principio – la domanda avrebbe dovuto essere: “Se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e obietterei all’arruolamento?”.

Come fanno gli studenti tedeschi, per esempio, che scioperano contro il ritorno della coscrizione, ribadendo che non vogliono diventare carne da cannone, né imparare ad uccidere studenti come loro. Ma con la divisa di un altro colore.

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