Il lavoro domestico in Italia è ancora a carico delle donne: discriminate, non pagate e costrette a ruoli di cura
Io lavoro, tu lavori, lei lavora. Poi lei cucina, lava, accudisce. E alla fine del mese, a conti fatti, guadagna meno. In Italia il carico della cura pesa ancora sulle spalle delle donne. Che il più delle volte sono penalizzate anche in ufficio. Lo dimostrano gli studi sulle discriminazioni di genere al lavoro: le donne sono più preparate e si laureano prima, ma hanno carriere più discontinue. Gestiscono un carico familiare superiore, eppure percepiscono redditi più bassi. Fanno figli quanto gli uomini, ma rischiano maggiormente di perdere il lavoro. Le conseguenze sono innanzitutto economiche: se l’Italia allineasse i benchmark europei su occupazione giovanile, femminile, stranieri, partecipazione 60-69enni, secondo il Welfare Italia Index 2025 presentato a novembre, si attiverebbe un incremento occupazionale di circa 2,8 milioni di unità con una crescita del Pil fino a 226 miliardi di euro, +10,6% rispetto ai livelli attuali. Oltre l’82% delle donne che non lavorano, secondo un report di ottobre dell’Organizzazione internazionale del lavoro e di Federcasalinghe, lo fa per dedicarsi alla cura familiare. Questo le impegna per un numero di ore settimanali superiore a quello di un impiego retribuito. Un impegno che riguarda anche le lavoratrici: come emerge dal report, l’Italia è il secondo Paese dell’Unione Europea dopo il Portogallo per il tempo dedicato dalle donne al lavoro non pagato. Con un carico di oltre 5 ore al giorno.
La situazione peggiora drasticamente con l’arrivo dei figli: “Le donne occupate nel settore privato subiscono un marcato calo dei redditi, mentre per gli uomini si osserva una crescita continua”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Maria De Paola, professoressa di Politica Economica all’università della Calabria in congedo e dirigente presso la Direzione Centrale Studi e Ricerche Inps. Secondo gli studi dell’ente previdenziale, nel settore privato le madri registrano, nell’anno della nascita, una riduzione fino al 76% dei redditi annui percepiti, con un recupero solo parziale negli anni successivi. Non solo. “Prima della nascita del figlio la probabilità di uscita dal settore privato è simile per uomini e donne (circa 10,5-11% per le donne e 8,5-9% per gli uomini), mentre nell’anno della nascita la probabilità aumenta bruscamente per le donne, raggiungendo il 18%, e scende all’8 per cento per gli uomini”.
Come segnalano le indagini sugli stereotipi di genere, sul divario pesano ancora fattori culturali. Ma anche la carenza di strumenti di conciliazione, strutturati come se riguardassero soltanto le donne: “Basti pensare all’esiguità del congedo di paternità, alla resistenza ad introdurre incentivi per la condivisione di quello genitoriale, all’‘opzione donna’ legittimata in quanto sono le donne a doversi far carico eventualmente della cura dei nipoti”, sottolinea a Ilfattoquotidiano.it Chiara Saraceno, sociologa della famiglia e filosofa. Così la cultura d’impresa e il modello tradizionale di lavoro continuano a penalizzare di più le donne: “Si basano su un’idea di lavoratore libero da responsabilità di cura, un lavoratore che può delegare quella responsabilità a qualcun altro: nello specifico, a una donna”.
L’impatto è innanzitutto economico. Il tasso di occupazione femminile in Italia è pari al 57,4%, sotto la media Ue di oltre 13 punti. Si tratta di un dato che ha conseguenze sia individuali, sia collettive. Da un lato infatti le donne sono maggiormente esposte al rischio di esclusione sociale e povertà, dall’altro questa esclusione ha conseguenze anche sul Pil e sulla tenuta economica del Paese. Sarebbe poi più preciso dire che il 57,4% delle donne ha un lavoro retribuito. Se si considera anche il lavoro di cura non stipendiato, infatti, i dati cambiano: il 92% delle donne svolge almeno un’attività di cura o lavoro domestico nel corso della giornata, contro il 75% degli uomini. Secondo De Paola, il riconoscimento economico non sarebbe una soluzione strutturale sostenibile: “Retribuire formalmente il lavoro domestico e di cura richiederebbe risorse significative. Inoltre, non servirebbe ad eliminare gli squilibri che si osservano attualmente sul mercato del lavoro”. La priorità è intervenire su quei gap: “È necessario promuovere politiche volte ad accrescere la produttività e incentivare l’innovazione, creando lavori di qualità, e allo stesso tempo favorire il superamento della segregazione settoriale e degli stereotipi che ancora limitano le carriere femminili”.
Più che retribuire la cura privata, insomma, secondo le esperte si dovrebbe innanzitutto redistribuirla: renderla una responsabilità collettiva e condivisa tra uomini e donne, ma anche tra famiglie, stato e imprese. Ad esempio agevolando misure come il lavoro da remoto o a tempo ridotto per entrambi i neogenitori. Questi dispositivi, però, spesso rimangono appannaggio delle sole donne, divenendo di fatto nuovi deterrenti per la carriera: “Il diritto a prendere il part-time in forma reversibile nei primi anni di vita del bambino sia per i padri che per le madri costituisce una forma di flessibilità auspicabile, che aumenta i gradi di libertà. In pratica però, anche dove questa possibilità esiste, come ad esempio in Olanda e Germania, sono comunque più spesso le donne a farlo”, spiega Saraceno.
In Italia, circa il 31,5% delle donne occupate lavora part-time, una quota significativamente più alta rispetto all’8,1% degli uomini. La riduzione delle ore in ufficio spesso è un’arma a doppio taglio: blocca sia gli stipendi, sia la progressione di carriera, e a volte arriva giocoforza dopo i figli. “Difficile distinguere tra part-time volontario e involontario, ma in alcune regioni esso raggiunge dimensioni davvero preoccupanti. Ad esempio in Calabria circa il 64% delle donne occupate nel settore privato ha un contratto part-time”, racconta De Paola. Ma quando orari ridotti o lavoro da remoto non vengono concessi, cresce il rischio di abbandonare l’occupazione.
La condizione lavorativa delle donne con figli è resa più fragile anche dalle disparità economiche pregresse. E a volte gli strumenti di sostegno si trasformano in veri e propri boomerang: “Le misure che si basano su una prova dei mezzi familiare, pur avendo una loro giustificazione, presentano il rischio di scoraggiare l’occupazione femminile nei ceti più modesti e per le donne con alti carichi familiari e bassa qualifica”, spiega Saraceno. Come l’assegno unico per i genitori lavoratori: “Il coefficiente aggiuntivo introdotto è troppo modesto per contrastare questo rischio”. Un discorso che resta immutato alla luce dell’ultima legge di Bilancio: la decontribuzione fiscale per le imprese è prevista solo in caso di assunzione di donne svantaggiate o madri di tre o più figli piccoli, si incentiva la trasformazione dei contratti full time in part-time per lavoratrici con 3 o più figli minori, e si riserva alle lavoratrici a basso reddito, madri di 2 o più figli minori, un assegno integrativo mensile di 60 euro.
La percezione, come testimoniano le storie delle donne che dopo essere diventati madri hanno perso il lavoro, è che manchino servizi pubblici e misure di sostegno. Per questo, spiegano le esperte, è fondamentale una risposta istituzionale. “Occorre migliorare le condizioni di vita complessive, fornendo un quadro di stabilità e continuità delle politiche, invece di interventi frammentati e una tantum“, sottolinea Saraceno. Superando la logica dei bonus e delle mance: “I servizi sono più efficaci dei trasferimenti monetari. È importante il sostegno all’occupazione delle donne e in particolare delle madri, ma servono anche forme di congedo disegnate per agevolare la condivisione delle responsabilità di cura tra madri e padri fin dalla prima infanzia”. E che incoraggino entrambi i genitori a ricorrervi equamente: “Il divario nell’utilizzo – specifica De Paola – è ancora molto ampio. Nuove politiche di conciliazione tra vita e lavoro, insieme ad interventi per la riduzione del gender wage gap, restano fondamentali”.