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“Dopo il secondo figlio mi hanno negato il part-time: ho dovuto licenziarmi”. “Al rientro non avevo più scrivania”: storie di maternità e discriminazioni

Le testimonianze raccolte da ilfattoquotidiano.it: "Nella multinazionale in cui lavoravo, i colleghi uomini facevano lo smart-working in modo ufficioso. A me è sempre stato negato, nonostante avessi due figli". Raccontaci la tua storia a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it
“Dopo il secondo figlio mi hanno negato il part-time: ho dovuto licenziarmi”. “Al rientro non avevo più scrivania”: storie di maternità e discriminazioni
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“Il mio sogno non era stare a casa a badare ai figli, non era questo che immaginavo da ragazzina”. Federica (nome di fantasia, ndr) ha la voce ferma mentre racconta a ilfattoquotidiano.it di aver lasciato il lavoro. È sicura quando spiega le ragioni economiche che l’hanno spinta a farlo. La voce si incrina solo quando rivela che ricorderà per sempre i pensieri di quel giorno: “Ora sarò solo una madre?”. C’è un passaggio de La donna gelata, uno dei romanzi auto-finzionali della premio Nobel Annie Ernaux, in cui la protagonista realizza l’ingiustizia di un carico di mansioni domestiche che ricade esclusivamente su di lei. Proprio come nei dettati della sua infanzia, la separazione dei ruoli è diventata, suo malgrado, chiara: “Papà va al lavoro, mamma prepara un buon pranzetto”. Siamo negli anni Settanta francesi, qualcosa da allora è cambiato. Eppure, come testimoniano i dati e le storie, il lavoro di cura è ancora un affare per sole donne. Anche in Italia, complici i fattori culturali ed economici, ma anche l’insufficienza delle misure politiche di conciliazione.

In Italia circa il 31,5% delle donne occupate lavora part-time, una quota significativamente più alta rispetto all’8,1% degli uomini. La riduzione delle ore in ufficio può penalizzare la carriera, ed è difficile comprendere quando sia “volontario” e quando diventi una forma di discriminazione. Tuttavia, insieme al lavoro da remoto, è uno degli strumenti che se esteso a entrambi i genitori può agevolare la redistribuzione del carico. E soprattutto scongiurare la possibilità che le neo-mamme abbandonino l’occupazione, un rischio che sale al 18% per le donne nell’anno della nascita del figlio (per i padri scende all’8).

Lavoravo in una grande azienda di Milano, nel settore della moda. Quando sono rimasta incinta del primo figlio, e poi del secondo poco dopo, ci siamo ritrovati con due bimbi piccolissimi e nessun aiuto concreto”, racconta Federica, che oggi ha 32 anni. “Mia madre ha problemi di salute, i suoceri vivono lontano. Ho chiesto un part-time, ma l’azienda me l’ha negato: non lo concedono a nessuno”. Nel primo anno, tra solitudine e senso di inadeguatezza, Federica lascia il lavoro e teme di aver perso anche la propria identità. La depressione post partum fa il resto.

Con due figli nati a un anno di distanza e una rete di sostegno insufficiente, la decisione di licenziarsi arriva dopo un calcolo preciso: “Tra nido e baby-sitter ci sarebbero voluti circa 650 euro al mese per bambino, più del mio stipendio: prendevo 1.200 euro. A conti fatti, conveniva che restassi a casa”. Federica faceva la sarta per un marchio del lusso, un lavoro intenso, spesso legato alle sfilate: “C’erano periodi in cui facevamo straordinari infiniti, anche di sera o nei weekend. Era impensabile gestire due bambini piccoli così”.

A complicare tutto, anche la difficoltà di accedere ai nidi comunali. “Quando è nato il primo figlio avevo fatto richiesta al Comune di Milano, ma non mi hanno dato il posto: con un solo bambino non avevo abbastanza punti. Avrei dovuto pagare un nido privato ma i costi sono esorbitanti, soprattutto per i lattanti”. La scelta di lasciare il lavoro a quel punto è ricaduta su di lei per ragioni economiche pregresse: “Sicuramente se mio marito avesse guadagnato meno di me o io avessi avuto più prospettive di crescita sarebbe andata diversamente”.

Mentre parla è molto lucida, ma anche arrabbiata. “Non è giusto che si debba scegliere. Conosco mamme e papà che quasi non vedono crescere i propri figli, perché quando torni dal lavoro a tempo pieno i bambini sono già a letto. È l’altro lato della medaglia, ed è altrettanto drammatico”. Per questo, secondo lei, una soluzione potrebbe essere il part-time garantito ad almeno uno dei genitori: “L’orario ridotto dovrebbe essere pensato come un diritto per il bambino, per la sua salute psicologica. Non importa che sia il padre o la madre, uno dei due deve esserci”.

E per esserci, a volte, basterebbe poter lavorare da casa. “Nella multinazionale in cui lavoravo, i colleghi uomini facevano lo smart-working in modo ufficioso. A me è sempre stato negato, nonostante avessi due figli”, racconta Martina, 38 anni. “Finché non avevo figli, le cose andavano bene, ma già allora si percepiva una mentalità maschilista: le donne restavano perlopiù in ruoli di segreteria, gli uomini facevano carriera”.

Dopo il primo figlio Martina torna in ufficio con l’orario ridotto per l’allattamento e non le viene più affidato nessun progetto. Da lì, un altro figlio, il crescente demansionamento e le discriminazioni: “Dopo la seconda maternità non ho più trovato nemmeno la mia scrivania. Sono stata isolata finché non sono riuscita a farmi licenziare, dopo un’azione legale non andata a buon fine”. Perché dimostrare il mobbing a livello legale, spiega, “è molto difficile, le registrazioni non hanno valore”. Martina però ricorda ogni dettaglio: “La responsabile delle risorse umane mi disse che la mia vita privata non interessava all’azienda e che non avrei dovuto chiedere nemmeno permessi per i figli”.

Secondo lei, oltre al problema culturale, c’è di base un sistema che non funziona. “Gli incentivi non sono sufficienti, gli asili sono pochi o cari, le aziende non collaborano… si lamentano dell’inverno demografico, e poi nessuno ci aiuta nella crescita e nella gestione dei figli”. E così chi ha più difficoltà economiche rimane indietro: “Non tutti possono permettersi un aiuto in casa. Quando i bambini stavano male più di uno o due giorni ero costretta a chiedere le ferie per stare con loro. Mi sarebbe bastato poter avere lo smart working”. In entrambe le storie, i periodi ipotetici sono tanti: “Se ci fosse stato un asilo nido accessibile, o se mi avessero concesso il part-time, avrei continuato volentieri a lavorare”, ammette Federica. “È assurdo che lo stato ti spinga a fare figli e poi non ti metta nelle condizioni migliori per prendertene cura”.

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