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Violenza sessuale, anche il concetto di consenso può essere riduttivo

Se a muovere le persone, in ambito sessuale, è un desiderio che non sempre coincide con la volontà, è difficile definire qualcosa come un consenso realmente libero
Violenza sessuale, anche il concetto di consenso può essere riduttivo
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di Luciano Sesta*

La recente modifica dell’art. 609 bis del codice penale, che disciplina i comportamenti in materia di reati sessuali, recepisce l’orientamento generale inaugurato dalla Convenzione di Istanbul (2011), per la quale c’è violenza sessuale non solo in presenza di minaccia o coercizione fisica e morale, ma anche quando la vittima, pur non opponendosi fisicamente all’atto, non vi ha dato il proprio libero consenso. Tanto si è detto e scritto sugli aspetti giuridici della riforma in questione – ferma in Commissione Giustizia al Senato a causa di alcuni nodi critici sollevati nel dibattito che ne ha accompagnato e seguito l’approvazione alla Camera – ma poco ci si è soffermati su cosa significhi davvero “consenso” in un ambito delicato e complesso come quello della sessualità umana.

Va detto, a tale riguardo, che l’insistenza sul consenso serve a escludere casi di violenza o costrizione, ma di fatto, nella stragrande maggioranza delle circostanze, i rapporti sessuali non si basano su un consenso puntuale e verbalizzato, come se da una parte ci fosse chi chiede, e dall’altra chi concede, ma sul desiderio reciproco. Il contesto in cui l’uomo chiede sesso, in attesa che la donna lo conceda, presuppone una visione antiquata dei rapporti sessuali. Oggi le statistiche ci dicono che il maschio è in “ritirata” sessuale di fronte a una certa spavalderia, anche erotica, delle ragazze. Ciò non implica, naturalmente, minimizzare il rischio di violenza sessuale, che, com’è noto, vede come vittime sostanzialmente le donne, non certo gli uomini. Ma aiuta a evitare di generalizzare un modello di “consenso” ritagliato ad hoc per i casi di violenza, e che è troppo astratto e riduttivo per la stragrande maggioranza dei casi in cui avvengono dei rapporti sessuali.

La natura dei rapporti sessuali, in effetti, è tale da rendere estremamente fluidi e ambivalenti i concetti di volontà, consenso e rifiuto. A determinare la grammatica dei rapporti è un arco di atteggiamenti e disposizioni emotive ai cui estremi troviamo il desiderio e la ripugnanza. In mezzo una gamma di sfumature intermedie: curiosità, voglia di sperimentare, testare autostima, ricerca di conferme, bisogno di novità, persino regolamento dei conti e desiderio di vendetta. Non solo verso il partner sessuale, ma anche verso terzi. In un ambito così ambiguo, variegato, e ad alta densità di invischiamento emotivo, il consenso è un concetto barriera, che non riesce a catturare la complessità della pratica che protegge dalla violenza. Acconsentire a un eventuale rapporto sessuale permette cioè di escludere abuso e violenza, ma non può essere considerato espressione né di desiderio né di volontà, come peraltro dimostrano i frequenti casi in cui ci si pente o non ci si riconosce più in ciò a cui, sul momento, si era acconsentito.

Se a muovere le persone, in ambito sessuale, è un desiderio che non sempre coincide con la volontà, è difficile definire qualcosa come un consenso realmente libero. Spesso chi desidera un rapporto sessuale non sa nemmeno cosa esattamente voglia, finendo talvolta per fare, sotto la spinta del desiderio, qualcosa in cui successivamente non si riconosce. Una certa dissociazione fra consenso, volontà e desiderio si attiva non solo quando il sesso è desiderato, ma anche quando è indesiderato. Si pensi ai numerosi casi nei quali la donna concede rapporti sessuali solo per “zittire” un marito o un partner troppo insistente.

Quest’ultimo caso rappresenta un vero rompicapo etico-giuridico: assecondare una richiesta indesiderata alla quale ci si potrebbe comunque opporre equivale a subire violenza o a dare un consenso controvoglia? Se il sesso indesiderato compromette la libertà del consenso, perché non dovrebbe farlo anche il sesso fortemente desiderato? Ci si può chiedere, per esempio, quanto si è liberi di non avere un rapporto sessuale che si desidera intensamente. La spinta del desiderio, in certi casi, può essere così forte da indurre ad acconsentire anche a ciò che, razionalmente, si preferirebbe evitare.

Nello stesso diritto penale in materia di sessualità, il consenso è un concetto negativo e minimale, che serve più ad accertarsi che non vi sia stato reato che a esprimere, in positivo, l’effettiva volontà dei partecipanti. La presenza di consenso è cioè necessaria a escludere violenza, ma non è sufficiente a esprimere la volontà. Il consenso non basta dunque a proteggere da ripensamenti, sentimenti confusi e false interpretazioni retrospettive, spesso terreno fertile anche di false accuse di violenza subita. Nell’ambito dei rapporti sessuali è più facile capire ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo. La centralità giuridica del “consenso” serve a presidiare questo limite negativo, ma nulla dice su ciò che, in positivo, vogliamo veramente quando chiediamo sesso o lo concediamo.

Vero è dunque cheno means no, ma non è altrettanto vero che “yes means yes”. Più probabilmente, yes means… maybe”.

*Docente di Filosofia Morale, Dipartimento SPPEFF dell’Università di Palermo

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