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La “pax trumpiana” tra Rwanda e Congo: accordo firmato, ma si continua a combattere. La corsa Usa ai minerali strategici

Mentre Washington celebra l’“ottava guerra chiusa” da Trump, sul terreno il conflitto continua. Due accordi legano la RDC a massicci investimenti statunitensi e alla prelazione sulle risorse critiche, ridefinendo gli equilibri economici della regione e spingendo fuori la Cina
La “pax trumpiana” tra Rwanda e Congo: accordo firmato, ma si continua a combattere. La corsa Usa ai minerali strategici
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Anche la scenografia era stata studiata: per l’occasione, si è scelta la sede dell’U.S. Institute of Peace, che ha appena cambiato nome, ribattezzato “Donald J. Trump Institute of Peace”. E quale miglior occasione per inaugurarlo, che siglarvi l’accordo che si propone di metter fine a una guerra durata oltre trent’anni? Sia il luogo e che l’accordo siglato il 4 dicembre a Washington incarnano perfettamente l’essenza delle “pax trumpiane”: accordi economici a vantaggio degli Stati Uniti, che per portare miglior profitto hanno probabilmente bisogno che le armi tacciano. Anche se, a guardarla dal terreno, non si direbbe proprio che giovedì sia stata firmata la pace tra Rwanda e Repubblica Democratica del Congo. Anche nelle ultime ore, infatti, alcuni grossi villaggi del Sud Kivu, al confine con il Rwanda, si sono svuotati a causa di pesanti combattimenti fra le forze governative da un lato e il gruppo armato M23 dall’altro e la popolazione di nuovo in fuga, con un fagotto di povere cose sulla testa.

Una realtà sul terreno che a Washington non è stata contemplata: nella conferenza stampa finale, Donald Trump ha tessuto elogi infiniti del grande accordo siglato e della fine di un conflitto che – ha riconosciuto – ha lasciato sul terreno negli anni uno spaventoso numero di morti: “Ben oltre dieci milioni”, ha confermato Trump, come attestano del resto la maggior parte delle stime. La guerra più sanguinosa al mondo dopo le guerre mondiali. Un conflitto complesso, stratificato e regionale. E infatti ieri erano presenti a Washington anche i presidenti di Angola, Burundi, Kenya, il premier togolese, il vicepresidente ugandese, i ministri degli esteri di Qatar e Emirati Arabi, il presidente della Commissione dell’Unione Africana. E poi, ovviamente, il segretario di Stato Usa Marco Rubio e l’inviato speciale per l’Africa Massad Boulos, consuocero di Trump.

“Molti prima di me ci hanno provato – ha affermato Trump – ma senza riuscirci. Questa diventa l’ottava guerra a cui mettiamo fine quest’anno”. Nonostante tali pompose affermazioni, tuttavia, l’aria ieri a Washington era pesante: davanti alle telecamere di mezzo mondo, i due presidenti, il congolese Felix Tshisekedi e il rwandese Paul Kagame, non si sono stretti la mano. Nel loro breve discorso pubblico, hanno entrambi sottolineato le difficoltà e le sfide che ancora attendono il lungo cammino per la pace: “Ci saranno alti e bassi” ha avvertito Kagame; “è l’inizio di un nuovo cammino, esigente e difficile” ha chiosato Tshisekedi.

I documenti firmati sono due: uno riguarda la pace fra i due paesi, l’altro invece è un “accordo di partenariato strategico” fra Congo e Stati Uniti. E sta tutto qui il cuore dell’interesse dell’amministrazione Trump a pacificare l’area. Gli Stati Uniti offrono massicci investimenti per ammodernare e industrializzare il paese, in modo tale da garantire la sicurezza delle catene di approvvigionamento dei minerali strategici e delle infrastrutture necessarie al loro sfruttamento.

Secondo l’accordo, entro 30 giorni la RDC dovrà presentare – da un lato – un primo elenco di progetti per il rafforzamento delle infrastrutture energetiche e logistiche e la stabilizzazione delle aree ricche di risorse ma instabili, e – dall’altro – un elenco iniziale di asset minerari e aree di esplorazione classificati all’interno della Riserva Strategica degli Asset (SAR), un meccanismo riservato a minerali critici e oro. Questi asset possono includere concessioni già identificate o aree non ancora assegnate. E gli Stati Uniti avranno diritto di prelazione. Gli accordi prevedono anche la creazione di una “riserva mineraria strategica” nella RDC, destinata a stabilizzare i prezzi e garantire un accesso prevedibile ai minerali essenziali per le industrie americane.

Fra le diverse infrastrutture prioritarie, l’accordo nomina in particolare la riabilitazione del cosiddetto “Corridoio di Lobito”, ovvero la linea ferroviaria RDC-Angola, strategica per l’esportazione di rame, cobalto e zinco dalla regione meridionale dell’ex Katanga (la “copper belt”, la “cintura del rame” che è anche la zona coi maggiori giacimenti di cobalto e di litio di recente scoperta) al porto angolano di Lobito, sull’oceano Atlantico.

Non per nulla, nella serata di ieri è stata anche diffusa una dichiarazione congiunta del governo Usa e della Commissione Europea che “riaffermano il loro impegno comune a promuovere la pace, la sicurezza e la crescita economica nella regione dei Grandi Laghi africani”, aumentando gli investimenti perché “lo sviluppo economico costituisce un pilastro essenziale della stabilità a lungo termine”. Al centro dell’interesse, di nuovo, è citato proprio il “corridoio di Lobito”: il comunicato congiunto Usa-Ue “apprezza” il recente coinvolgimento del settore privato per proposte di investimenti in terra congolese e offre “disponibilità” per sincronizzare lavori e investimenti sul lato angolano del tragitto, in modo da velocizzare e ottimizzare il tutto. C’è fretta.

Quello che non si dice è che il “settore privato” riguarda i colossi dell’hi tech americano, che hanno sete di materie prime, e nel contempo riguarda anche l’estromissione di fatto della Cina, che queste miniere sta in gran parte gestendo dopo i contratti sottoscritti anni fa con l’ex presidente congolese Joseph Kabila.

Così ha sintetizzato ieri, in un’altra conferenza stampa a margine, il neo governatore della Banca Centrale del Congo, André Wameso: “Le cause profonde di questa crisi sono economiche. Alla fine della guerra fredda, c’è stata una corsa all’accesso alle materie prime necessarie per cellulari e computer. Non si era riusciti, in quel periodo, a privatizzare le imprese minerarie dell’allora Zaire. Così, per permettere l’accesso alle materie prime da parte dell’Occidente, è stata creata una “terza via”. E purtroppo, poiché l’accesso alle materie prime era imperativo, è stata data carta bianca al Rwanda e all’Uganda per invaderci. Per risolvere tutto ciò serviva un piano economico che rendesse trasparente l’accesso alle risorse, affermasse la sovranità della RDC nello sfruttamento minerario e – laddove servisse una collaborazione fra gli stati della regione – ciò avvenisse in modo trasparente. Questo quadro consacra economicamente la fine di un ciclo economico. L’economia funziona a cicli, più o meno lunghi: noi stiamo assistendo alla fine dell’economia informatica come l’abbiamo conosciuta ieri e all’inizio del nuovo ciclo dell’economia verde, in cui di nuovo le materie prime strategiche si trovano in Congo. Stavolta non si negoziano le nostre materie prime senza di noi, ma noi siamo protagonisti. È una grande svolta. In sintesi, la pax trumpiana assomiglia molto a un mega contratto capestro: prendere o lasciare. Che poi sul terreno in realtà si continui a combattere, resta un dettaglio, se non disturba i manovratori.

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