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Radio Sarajevo di Tijan Sila: una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe

Radio Sarajevo di Tijan Sila: una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe
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Quando caddero le prime bombe, ero sdraiato a pancia in giù sul tappeto in camera mia ad ascoltare la radio – trasmettevano Suffragette City di David Bowie: di colpo uno stridio metallico squarciò l’aria e un’esplosione si abbatté sulle nostre tende, spazzandole via dal loro binario. La pressione fu così violenta che mi sentii svenire, come se fossi rimasto appeso a testa in giù alla sbarra troppo a lungo. Tutti gli impianti d’allarme della strada andarono nel panico, io invece no. Non ancora. Ben presto sarei stato in preda a un panico costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero tutt’al più sbalordito.

Sarajevo, 1992. Il mondo, si sa, non è mai stato un posto particolarmente rassicurante, ma di solito i disastri arrivano con un certo preavviso, un telegiornale allarmato, magari una mezza crisi internazionale. Non per Tijan Sila, che a undici anni si ritrova il fracasso della storia (quella vera, quella con le bombe) a sfondargli la finestra di casa mentre in sottofondo gracchiava un pezzo di David Bowie. Un’immagine che da sola basterebbe a definire l’intera, perversa assurdità del conflitto balcanico: la musica pop occidentale che fa da colonna sonora all’esplosione della civiltà.

Sila, oggi scrittore, insegnante e membro di una band punk, in questo Radio Sarajevo (traduzione di Cristina Vezzaro; Voland) non fa prigionieri e non cerca la facile commozione. Ci sbatte in faccia la verità con la brutalità onesta di chi quella realtà l’ha vissuta, cresciuto – per forza di cose – tra i brandelli di una quotidianità andata in pezzi. È un romanzo di formazione, certo, ma uno di quelli che ti lasciano addosso il cattivo odore della polvere da sparo e il sapore agrodolce della sopravvivenza.

Il punto nevralgico, quello che fa tremare le fondamenta morali del lettore benpensante, è il modo in cui la guerra, dopo lo shock iniziale, si trasformi in una “quasi abitudine”. L’orrore si banalizza, diventa sfondo, e in quel vuoto si insinua la noia. E qui Sila centra il bersaglio, come solo uno che ha giocato a nascondino tra le rovine può fare: mentre i genitori, simboli dell’inadeguatezza adulta, si rivelano inermi di fronte al crollo del loro mondo, l’undicenne Tijan e i suoi amici Rafik e Sead si rimboccano le maniche.

Non c’è spazio per la retorica dell’infanzia rubata. C’è solo l’urgenza cinica, pragmatica, di campare. Saccheggi, mercato nero, e lo scambio più beffardo e geniale: riviste pornografiche barattate con i soldati per dolciumi. È un’economia di guerra che smaschera ogni ipocrisia: l’eros come merce di scambio, l’innocenza dei bambini che si contamina per un po’ di zucchero. La sua è la generazione dei “dimenticati,” come lui stesso la definisce, quella che ha imparato a leggere il mondo non sui libri di scuola (chiusi) ma sui bossoli in terra.

Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e iniziammo a lanciare il pallone contro una delle porte dei garage. Dovevamo farlo rimbalzare in modo che ci ritornasse dritto tra le braccia. La guerra si notava anche dal fatto che nessun vicino apriva di colpo la finestra per lamentarsi del rumore – ormai eravamo abituati a decibel ben più alti di quelli di uno Spalding che sbatteva contro una lamiera d’acciaio, e poi era un suono di pace: il pallone e la porta si scontravano come i piatti di un’orchestra, come grandi cimbali nascosti nella penombra, nell’odore di fieno marcio.

Lo stile è avvincente, diretto, con quel tono tragicomico che disinnesca il patetismo e lo trasforma in una risata strozzata, in un sardonico atto di resistenza. Non è un libro “commovente” nel senso consolatorio del termine, è un libro necessario. Non ci spinge a piangere, ma a svegliarci, a guardare il volto della catastrofe senza i filtri del perbenismo occidentale. Il prestigioso Premio Ingeborg Bachmann, vinto da Sila nel 2024, non è un riconoscimento letterario qualsiasi, è una consacrazione alla Verità, quella verità cruda e inopportuna che questo romanzo restituisce pienamente.

Radio Sarajevo è una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe, un monito che suona forte tra le macerie. Se volete una fotografia lucida e senza sconti di cosa significhi crescere quando il mondo decide di mettersi a sparare, questo è il libro da leggere.

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