“Trump è un fascista?”: pochi hanno capito il significato del siparietto con Mamdani alla Casa Bianca
di Silvano Poli
Z. Mamdani e D. Trump condividono qualcosa di profondo: sono entrambi cresciuti nel Bronx. Può sembrare un’inezia, ma in quest’epoca di localismo e declino ideologico condividere i luoghi e gli umori in cui si è cresciuti può spiegare molto più dei vari sondaggi e studi. Ad accumunare Trump e Mamdani è infatti lo stile, l’intensità della comunicazione propria del quartiere in cui sono cresciuto: un tratto che, come mostrano i risultati, oggi è l’arma decisiva che li rende dei vincenti.
Per questo motivo, il loro incontro alla Casa Bianca di pochi giorni fa (21/11) era uno degli eventi più attesi da partiti e stampa. La ragione è che nessuno sapeva bene cosa aspettarsi. Con Mamdani non sappiamo ancora bene come regolarci, ma Trump è ormai celeberrimo per i suoi repentini cambi d’opinione e strategia. Nei giorni precedenti, per mettere in difficoltà il futuro sindaco, aveva minacciato la militarizzazione della città. Poi i toni si erano fatti più distesi, con Trump che aveva persino aperto ad una collaborazione. Alla fine, come riportato da tutte le fonti stampa, la tregua è stata siglata; e questo nonostante i tentativi di surriscaldare il confronto da parte dei media e delle loro domande scomode. L’ormai immancabile ciliegina mediatica che rende l’evento virale è la provocatoria domanda di una giornalista che chiede a Mamdani di confermare se, in linea con una sua precedente dichiarazione, considera ancora Trump un “fascista”. A rispondere è, tuttavia, il presidente che, palesando tutta la sua esperienza e il suo talento comunicativo, eradica il problema e “assolve” un balbettante Mamdani con un “puoi dire di sì. È più facile, non mi importa”.
Se tutti i media hanno riportato questo siparietto pochi si sono sforzati di comprendere cosa può voler dire. Dal punto di vista teorico e delle sue conseguenze sulla prassi politica ci sono due possibili interpretazioni. Entrambe, prese singolarmente, sono utili e ci dicono qualcosa, ma insieme rappresentano una grande verità sulla politica.
Da una parte c’è la questione dei personaggi: compreso che l’attacco frontale non funziona, entrambi i protagonisti hanno voluto riorientare il loro discorso. Prima dell’incontro Mamdani si era confrontato con i vertici Dem di zona, come la governatrice del suo stato, K. Hochul, e i rappresentanti al senato. L’intento era chiaro: rassicurare la vecchia guardia, ma senza snaturarsi, serrando le fila. Di contro, Trump è andato all’attacco e ha fatto sua la lezione lacaniana sull’“essere parlato dalla parola dell’altro”: non ha solo scelto di rassicurare i suoi, ma anche di terrorizzare gli altri. Affermare di aver trovato un “interlocutore intelligente”, di volerlo “aiutare a realizzare i suoi progetti per NY” è, per una parte dell’elettorato giovane e radicale Dem, molto peggio che grattare con gli artigli sulla lavagna. L’esser riuscito in un solo confronto a “disinnescare” l’attuale eroe della sinistra occidentale ha, naturalmente, anche il compito di ricordare al riottoso movimento MAGA, e qualche aspirante delfino, chi è l’unico e incontestabile capo carismatico.
Al tempo stesso, questo incontro ci insegna molto del logorante processo di trasformazione del sistema partitico statunitense. Sebbene molti continuino a ignorare la realtà, il ritorno di Trump è stata la miccia che ha avviato la trasformazione degli Stati Uniti da paese bipartitico a uno a quattro partiti: il partito dei repubblicani dell’establishment, quello dei democratici dell’establishment, i cosiddetti populisti dell’alt-right e i neosocialisti democratici. Mamdani è stato la conferma di questa tendenza. È riuscito a imporsi nella roccaforte del capitalismo finanziario adoperando una strategia uguale, ma speculare nei temi, a quella di Trump: fregarsene di perdere i voti al centro rivendicando la sua radicalità. In un mondo smisurato e smoderato andare a caccia di moderati è semplicemente una strategia stupida.
Mentre il MAGA ha avuto gioco facile a digerire tutto il Great Old Party, il confronto interno ai Dem sembrava essere l’unica battaglia in corso. Ma ora, con la sua inedita cordialità e collaborazione, Trump ha voluto turbare questa situazione e frammentare la barriera antagonistica. Consapevole di quello che può essere il suo unico avversario ideologico, nel 2026 contro la nuova giunta newyorkese non saranno più paventati interventi roboanti; piuttosto, sarà il turno delle armi affilate e silenziose della burocrazia e della legge.
Tutto pur di ostacolare e disinnescare, ben oltre il livello retorico, il progetto del nascente partito socialista e democratico che Mamdani può incarnare. In politica, d’altronde, le stilettate sono più efficaci dei cannoni, giacché si sferrano in silenzio e con un sorriso.