Depeche Mode, quello che i fan non vogliono sentirsi dire
Ho ascoltato in anteprima il nuovo live dei Depeche Mode, in uscita in questi giorni. Più che un disco, è uno specchio: mostra ciò che resta e ciò che, inevitabilmente, si è incrinato nella band di Martin Gore e soci. Li seguo da una vita, e chi li conosce davvero sa esattamente dove la traiettoria ha iniziato a piegarsi: non è nostalgia, è memoria tecnica. Nei consueti nove punti di questo blog voglio raccontare le “gioie e i dolori” dei Depeche Mode: ciò che continua a funzionare e ciò che oggi non funziona più.
Cominciamo
1. Un passo indietro
Memento Mori, riascoltato due anni dopo, è più compiuto di quanto ricordassi: un disco maturo, lucido, vivo. Il nuovo live, sulla carta, dovrebbe restituirne l’essenza e documentare il tour. In realtà fa tutt’altro: ne mostra la superficie e, allo stesso tempo, la tradisce. Il suono è lucidissimo, ripulito, sistemato in ogni angolo; tutto torna, tutto è al suo posto. Ed è qui il paradosso: il disco in studio sembra più vivo del live che dovrebbe raccontarlo. E persino alcuni classici, nel confronto, perdono potenza.
2. L’anima
Martin Gore è il baricentro silenzioso dei Depeche Mode. Canta, suona, compone, regge e raddrizza: da decenni è lui a mantenere la band in equilibrio. Non è solo l’autore principale: è la coscienza musicale del gruppo. La sua voce, quando decide di usarla, mantiene intatta la sua precisione. Così come le linee melodiche rimangono riconoscibili e necessarie. È lui che tiene insieme passato e presente. Possiamo definirlo il centro emotivo dei Depeche Mode? Assolutamente sì.
3. La presenza
Eleganza, pericolo, presenza scenica, una voce capace di dare peso e direzione a qualsiasi brano: Dave Gahan ha incarnato tutto questo. Volto e corpo dei Depeche, l’elemento che rende immediatamente riconoscibile la loro ombra. Oggi quel magnetismo non è scomparso, ma si è incrinato. La voce non è “persa”, ma il controllo non è più stabile: tende a calare, a oscillare nelle parti più esposte, un’instabilità ormai strutturale. E anche sul piano scenico qualcosa si è spostato: la gestualità, un tempo indiscutibile, oggi è spesso sopra le righe. Da magnetismo puro a parodia di se stesso.
4. Il marchio
L’oscurità dei Depeche Mode non è un trucco: è la loro lingua madre. Bassi che strisciano, synth che pulsano, melodie che si ritirano all’ombra della luce. È lì che si è formato il loro carattere, forgiato dalla tensione trattenuta di certi passaggi, dai dettagli che a tratti sanno inquietare. E poi c’è la loro fragilità elettrica: nessuno ha mai saputo maneggiarla come loro. L’oscurità di cui parlo non è una maschera: è un modo di stare al mondo, ed è l’unica cosa che le molte band epigone non sono riuscite a ricalcare allo stesso livello. È un marchio, e come tale, non è riproducibile.
5. Il limite
Le loro melodie continuano a entrare nelle ossa: semplici in apparenza, profonde in sostanza. Anche in Memento Mori ci sono brani capaci di reggere il confronto con il loro passato migliore (Ghosts Again, Wagging Tongue): quante band della loro epoca possono permettersi una lucidità simile nel 2025? Nessuna. Eppure, dal vivo, quella lucidità si opacizza: la restituzione di certi suoni viene schiacciata dalla sezione ritmica, un limite che anche una parte dei fan più razionali riconosce da anni. E poi c’è l’assenza di Alan Wilder: il vero vuoto mai colmato, soprattutto quando si tratta di dare profondità all’ architettura sonora dei pezzi.
6. Lo scollamento
Anton Corbijn – il fotografo e regista che ha costruito l’immaginario visivo dei Depeche Mode per quarant’anni – oggi sembra raccontare un’altra band. Il suo resta un racconrto potente, certo, ma non coincide più con quello dei Depeche Mode, né di oggi né di ieri. È come se, a un certo punto, si fosse dimenticato chi sono davvero. Il risultato è uno scollamento evidente: immagini bellissime ma poco rappresentative, una cornice che non amplifica il loro mondo – lo restringe.
7. La scaletta del tour
Un live energicamente “telefonato”: lo possiamo dire? Le canzoni sono sempre le stesse, fatta qualche rarissima eccezione. E non è la solita lamentela da forum: c’è un disegno preciso. Vi pongo due quesiti: non sarà che molti brani storici non vengono più affrontati non per scelta artistica, ma perché oggi – per ragioni vocali ed espressive – non potrebbero sostenerli? E, ancora: alcuni pezzi non richiedono forse un controllo e una precisione che non appartengono più alla loro dimensione attuale? Le risposte stanno tutte in un catalogo enorme ridotto a una rotazione live rassicurante per molti — ma non per tutti.
8. La rilevanza
Che i Depeche Mode siano ancora rilevanti è un fatto: hanno una voce, un presente, un linguaggio che resiste. Il punto è dove scelgono di portarlo. Gli stadi non rendono giustizia alla poetica che li definisce: dilatano ciò che, per natura, vive di densità. Le ombre che nei teatri, nei palazzetti, negli spazi indoor respirano e si ingigantiscono, nelle arene soffocano, si dissolvono. E così, nel tentativo di amplificare la propria rilevanza, finiscono per ottenere l’esatto contrario.
9. Lo spettacolo
Alla fine resta il nuovo live: un documento che mette a nudo la distanza tra ciò che i Depeche Mode sono e ciò che lo spettacolo pretende di mostrarne. La band, con le sue crepe, c’è. È lo sguardo intorno a loro che traballa. Il nodo è tutto qui: cosa resta e cosa si è rotto. E quanto — e cosa — siamo disposti ad ammettere senza inventarci scuse.
Come sempre, chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata, disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify (link qui sotto). Se vuoi dire la tua, fallo nei commenti — o, meglio ancora, sulla mia pagina Facebook pubblica, dove questo blog vive davvero. Lì il dibattito continua, si contorce, deraglia…e a volte sorprende.
E sì: se ne leggono di tutti i colori.
Ti aspetto.
9 Canzoni 9 … per celebrare i Depeche Mode