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La terza riforma Irpef favorisce i ricchi e crea un buco di 20 miliardi: il governo è alla sistematica menzogna fiscale

Grazie a Meloni, a ogni prossima legge di bilancio partiremo da quota centoventi. Ai 100 miliardi di interessi annuali sul debito andranno aggiunti i 20 e più del buco Meloni
La terza riforma Irpef favorisce i ricchi e crea un buco di 20 miliardi: il governo è alla sistematica menzogna fiscale
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A volte succede che il leader populista cada nella sua stessa rete. È capitato recentemente a Giorgia Meloni che ha malamente contestato, per supposta malafede, coloro che hanno sottolineato l’iniquità della sua riformina, la terza, dell’Irpef, contenuta nella legge di bilancio del 2026. L’iniquità è stata scoperchiata dall’Istat che ha calcolato come i 3 miliardi di nuove riduzioni vadano, in realtà, ai due quinti più ricchi nella distribuzione del reddito, e dunque a contribuenti anche benestanti. Ridurre l’Irpef di 440 euro l’anno per contribuenti che ne dichiarano da 50.000 e fino a 200.000 difficilmente rientra in una sana e normale politica di equità distributiva.

Per coprire lo strafalcione della premier è subito intervenuto, con una lunga intervista al Sole 24 ore in funzione di pompiere, il responsabile di tutto questo, il viceministro Leo, che nel tentativo di giustificare la premier non ha però migliorato la situazione. Il viceministro ha spiegato che la destra ha un progetto fiscale complessivo che è quello di ridurre l’Irpef per realizzare una grande redistribuzione. Questo progetto ha avuto tre passaggi principali. Il primo è stato l’aumento della soglia di reddito per gli autonomi in regime di flat tax da 65.000 a 85.000 euro, con risparmi di 500 euro mensili di tasse. Poi l’anno scorso è arrivato il bonus Meloni e la rivisitazione delle aliquote con un ammanco per le casse dello stato di 18 miliardi. Ora il ciclo si chiude pensando a tutti gli altri contribuenti fino a 200.000 euro, con un esborso per lo Stato di 3 miliardi.

Il populismo fiscale della destra ha un carattere ecumenico, cioè ha toccato quasi tutti i 38 milioni di italiani che pagano l’Irpef. Rimangono fuori solo i 167.000 contribuenti che hanno un reddito superiore ai 200.000 euro. Ma è probabile che ad essi penserà la legge di bilancio del 2027. Quindi il buco annuale nell’Irpef di 20 miliardi e più, che si è venuto a creare secondo i calcoli del ministro, fa parte di un consapevole piano economico strategico.

Nella lunga intervista, il viceministro Leo si è però dimenticato di dire dove sono state trovate le risorse per coprire l’importante riduzione. Ne lo dirà mai, e allora lo aiutiamo. In primo luogo si è attinto al pozzo di San Patrizio del debito pubblico, in costante aumento in termini assoluti sotto il governo Meloni. In secondo luogo, il buco dell’Irpef è stato colmato con una forte riduzione della spesa per tutti i servizi pubblici, e quindi hanno pagato e pagheranno i cittadini in maniera crescente. Da ultimo, è stato finanziato con un taglio del 10% dei salari dei 3,8 milioni di pubblici dipendenti perché il rinnovo contrattuale del triennio 22-24 ha coperto solo un terzo della recente inflazione. Se poi pensiamo che una manovra analoga è stata fatta dal governo Berlusconi nel 2010, i pubblici dipendenti in venti anni hanno avuto il salario falcidiato del 15% a causa delle manovre economiche del centrodestra. Se oggi i salari in Italia per milioni di lavoratori sono molto bassi, bisogna ringraziare anche la politica, nella fattispecie il duo Berlusconi-Meloni.

Comunque, tutte le agenzie indipendenti, Banca d’Italia, Corte dei Conti e Upb hanno impallinato anche questa terza manovra Meloni, giudicandola incapace di affrontare i nodi strutturali dell’economi italiana. Da studioso, ho trovato particolarmente interessante la comunicazione di Fabrizio Balassone, vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia. A pag. 9 c’è una frase illuminante che, pur riferendosi alla detassazione degli straordinari per il 2026, ha un carattere generale e smaschera i limiti della politica economica governativa. Balassone fa la seguente osservazione: “È improprio assegnare al bilancio pubblico il compito di recuperare il potere di acquisto perduto dai lavoratori, soprattutto quando la redditività delle imprese può consentire che questo avvenga attraverso la contrattazione”.

Questa frase chiarisce i due problemi di fondo di questa ennesima manovra populista. In primo luogo, per Banca d’Italia è sbagliato usare il bilancio dello Stato per aumentare i salari dei dipendenti privati. Sarebbe difficile pensare il contrario, perché si crea così la pericolosa illusione che i politici possano aumentare a piacimento gli stipendi. Casomai, lo Stato dovrebbe aumentare gli stipendi dei suoi dipendenti, cosa che non ha fatto. Il salario va aumentato dalle imprese e non spinto in maniera parassitaria da sconti fiscali corporativi, anche perché le casse pubbliche sono vuote. Il salario di Stato di Meloni ci porta su un binario morto. Ma c’è un secondo elemento ancora più importante, contenuto nel secondo inciso.

L’esponente della Banca d’Italia candidamente fa intendere che oggi le imprese hanno le risorse necessarie per rinnovare i contratti. Gli anni post-pandemia sono stati molto buoni per le imprese che hanno accumulato ingenti profitti, e anzi ottimi per quelle oligopolistiche, come banche e assicurazioni. Quindi sarebbe ora che gli imprenditori aprissero il portafoglio per aumentare i salari stagnanti da anni, secondo una normale logica contrattuale. Gli scioperi del venerdì che muovono l’insipida ironia di Meloni potrebbero benissimo essere evitati.

Un tempo a proposito dei conti pubblici si parlava del coraggio della verità, in genere amara. Ora invece siamo passati al coraggio della sistematica menzogna fiscale. Il ciclo delle finanziarie falsamente redistributive di Meloni ha creato in tre anni un buco, solo considerando l’Irpef, superiore ai 20 miliardi annuali, aggravando in maniera mortale i problemi della nostra finanza pubblica. Grazie a Meloni, a ogni prossima legge di bilancio partiremo da quota centoventi. Ai 100 miliardi di interessi annuali sul debito andranno aggiunti i 20 e più del buco Meloni.

Negli anni Novanta c’era un ampio dibattito sul problema di come ridurre il debito pubblico, considerato una zavorra per l’economia. Ora quella preoccupazione non c’è più, immersi come siamo nella nebbia di un iniquo populismo fiscale. Quando, tra non molto, i fumi del piacevole torpore no tax si diraderanno avremo delle brutte sorprese? Speriamo di no, ma temo di sì, almeno per la stragrande maggioranza degli italiani.

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