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Quando torno a Genova mi assale il tempo perduto, ma in fondo ‘who gives a fuck anyway’

Un viaggio nostalgico attraverso i ricordi di Genova, dalla focaccia come madeleine ai Beatles e Frank Zappa
Quando torno a Genova mi assale il tempo perduto, ma in fondo ‘who gives a fuck anyway’
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I sette volumi di Marcel Proust che cercano il tempo perduto erano nella biblioteca di mio padre, un portuale di Genova. C’erano anche Horkheimer, Castaneda e Packard, e poi poeti, da Montale a Dylan Thomas, e Steinbeck e Hemingway, Joyce e Simenon. Donò gran parte dei suoi libri al gruppo culturale dei portuali, quando ancora la sinistra si occupava di cultura. Provai a leggere i libri più impegnativi, da ragazzo, senza trarne gran che. Iniziai a leggere Linus, quello di Oreste del Buono, sin dal primo numero, nel 1965, lo stesso anno in cui, a 14 anni, al Palasport, vidi i Beatles.

Sono andato via da Genova nel 1987, e ogni tanto ci torno: di recente per il Festival della Scienza, per un’affollatissima lectio magistralis a Palazzo Ducale, e poi per una tavola rotonda alla Camera di Commercio, in via Garibaldi, patrimonio Unesco. Quando torno, mi “assale” il tempo perduto, à la Proust. I giovani non lo possono fare, il loro tempo è ora. Quando Marcel scrisse La Récherche, un genovese scrisse la canzone simbolo del sentimento dei genovesi che se ne vanno. Ma se ghe penso. L’emigrante in Argentina pensa ai luoghi della sua gioventù, li rivede, e vorrebbe tornarci, per “posarci le ossa”. Un’altra chiede al piccone che distrugge il quartiere di Portoria di “darci piano” perché quei colpi lo colpiscono al cuore.

Sul Volabus che da De Ferrari va all’Aeroporto rivedo, dal finestrino, molti luoghi che mi riportano indietro nel tempo, come avvenne a Lennon che, da un viaggio in bus, tirò fuori In my life, una delle più belle canzoni dei Beatles. Al posto di Penny Lane e Strawberry Fields c’è la porta della chiesa sconsacrata, in via Fontane: la palestra della mia scuola media. Vedo l’inizio di salita San Rocco, con la fermata della funicolare che porta a Granarolo. Quante volte l’ho fatta, per tornare a casa, quella salita. Vedo passare il 32, l’autobus che porta nel mio quartiere; ai miei tempi era il 94. Quando cambiò a 32 chiesi a un autista la targa 94, dove sono elencate le fermate; veniva esposta nella parte anteriore del bus, e anche sulla fiancata posteriore, dove c’era il bigliettario: è incorniciata a casa mia.

Qualcosa rimane: nei vicoli c’è ancora la latteria che, d’inverno, faceva la panna, quando i gelati scomparivano dai bar e dalle latterie. Di fronte sale un vicolo con la tripperia dove mio padre comprava le trippe, e mio nonno, suo padre, andava a bere il brodo. Compro la focaccia, dove la fanno buona, e la divoro camminando per strada, avvolta in carta straccia. Non c’è niente di più buono; dalle altre parti non è come a Genova: è la mia madeleine. Come anche il pesto, inimitabile e imitatissimo: si fa solo col basilico di Prà. O con quello coltivato sui davanzali, in vasi riciclati da latte di conserva, come faceva mia nonna. Ci sono gusti che non riesco a ritrovare, come la torta pasqualina che mia nonna insegnò a sua nuora, mia mamma. Ancora la vendono, nelle rosticcerie, ma non c’è paragone.

Un po’ di quel tempo lo ritrovo, ma gran parte è oramai perduto. C’è ancora il palazzo della mia Università, in via Balbi. Ma non c’è più l’istituto di Zoologia, ora occupato da anonimi uffici. C’è la Lanterna, e fa il suo mestiere. Dopo il tramonto, il fascio di luce illuminava a intermittenza il soggiorno della casa dei miei. Le imposte di quella finestra non si abbassavano mai perché da lì si vedono il mare, il porto e le alpi marittime, bianche di neve, d’inverno, fino a Capo Noli. Sottoripa, dietro a Palazzo San Giorgio, c’è ancora il negozio dove andavo a comprare i jeans, e quel “buco” dove fanno i panini più buoni del mondo. E le pescherie, dove c’erano solo pesci che venivano dal mare lì davanti. Ora sono quasi tutti di allevamento, oppure vengono “da fuori”.

Il negozio dove compravo i dischi resiste. Nella via delle macellerie c’è ancora il negozio che vende stoccafisso e baccalà, bagnati in acqua corrente in vasche di marmo. Mio nonno metteva lo stocche nella cassetta dello sciacquone, per cambiare l’acqua ogni volta che si “tirava la catena” che comandava lo scarico. Quando andava in bagno diceva: vado a cambiare l’acqua allo stocche. Mia nonna lo “accomodava”, con olive, pomodori, patate, pinoli. E ogni volta nonno Nando le diceva: non lo hai mai fatto così buono. Lessico familiare. Passeggio per Genova, in via XX Settembre, la via dei cinema. Non ce n’è rimasto uno. Viene in mente il replicante di Blade Runner, che racconta le cose che ha visto, e che voi umani… Come al solito ha ragione Zappa che, alla giornalista che gli chiede come pensa sarà ricordato, risponde: non è importante.

Son tornato da poco a Los Angeles, dove, per dieci anni, ogni volta, da Sunset Boulevard andavo su da Laurel Canyon, giravo a destra per Mulholland Drive, sì quella di Lynch, verso Woodrow Wilson Drive, a trovare Frank. Casa Zappa è stata venduta a Lady Gaga, e poi alla figlia di Mick Jagger. Non è più un posto dove posso andare ed essere accolto da amico. Gran parte del “mio” mondo è andato, come molte persone che per me sono state riferimenti cruciali.

Non sbaglia, lo zio Frank, che a Genova ha fatto il suo ultimo concerto, nello stesso Palasport dove ho visto i Beatles: it’s not important. E a chi rimpiange i bei tempi andati risponde con la voce del Central Scrutinizer: Who gives a fuck, anyway. Per subito contraddirsi con la melodia più triste che conosco: Watermelon in Easter Hay.

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