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La raccolta delle olive in Cisgiordania è una festa ma la nostra è durata poco: subiamo due attacchi dai coloni

"Proviamo a parlargli, a spiegare che stiamo raccogliendo nella terra di Mohammed. Ma arriva l’esercito". Il racconto di Giorgia Lombardi, volontaria Assopace Palestina

di Giorgia Lombardi *

Oggi abbiamo subito due attacchi.
Siamo partiti all’alba per la raccolta delle olive, nel nord-ovest della Cisgiordania, vicino Tulkarem.
Mohammed e sua moglie Fouzia sono venuti a prenderci alle 6:30. Anziani contadini che hanno chiesto aiuto per riuscire a raccogliere le loro olive.
Siamo dieci “internazionali” — da Francia, Germania, Italia, Stati Uniti e Canada — venuti a dare una mano nei campi.

Avevamo con noi sacchi neri, secchi, un bollitore. Tutto l’occorrente per un giorno di lavoro che, in Palestina, è anche una festa. La raccolta delle olive, qui, è un rito antico. Si chiacchiera, si canta, ci si prende cura degli alberi, un po’ come da noi.
Ma la festa, oggi, è durata meno di un’ora.

Dopo trenta minuti è arrivato un colono. Occhiali da sole, mitra a tracolla, tono aggressivo.
Ci dice che non possiamo stare lì, che quella terra è loro perché “gliel’ha data Dio”. Che le olive le raccoglierà “la sua gente”.
Aggiunge che i palestinesi lo sanno: non devono venire.

Proviamo a parlargli, a spiegare che stiamo solo raccogliendo olive nella terra che appartiene a Mohammed. Intanto velocizziamo, nel tentativo di salvare almeno un po’ del raccolto. Ma arriva l’esercito. Una camionetta, due soldati incappucciati con la divisa dell’IDF e i fucili spianati.
Chiedono i documenti. Noi abbiamo solo le fotocopie dei passaporti; i palestinesi, invece, consegnano le carte originali e vengono trattenuti.

Ci intimano di andarcene. La colonia — illegale anche secondo il diritto internazionale — si trova a duecento metri di distanza dai campi, e quella sarebbe, a detta loro, una “zona di sicurezza”. Arbitraria come la colonia. Hanno rubato la terra, e ora rubano anche le olive.

Con noi sono gentili, persino melliflui. Uno dei soldati ci chiama “amore mio”.
Con i palestinesi, invece, la voce cambia: urla, insulti, minacce.
Li lasciano due ore sotto il sole, senza acqua.

Poi arriva un altro colono, con la pistola infilata nei pantaloni.
È fuori di sé, urla contro tutti, anche i soldati provano — invano — a calmarlo.
Dice che conosce quei palestinesi, che li ha già visti lì.
E alla fine li arrestano. Li portano via.
Noi non riusciamo a impedirlo.

Riprendiamo la strada a piedi, tre chilometri sotto il sole.
Trenta gradi, nessuna ombra, solo terra e vento.
Non ci fidiamo delle strade: i coloni sono feroci, e gli agguati frequenti.

Appena arriviamo al rifugio, un’altra famiglia ci chiede aiuto.
Qualcuno ha bruciato i loro uliveti: centinaia di alberi.
Sono di Ismail.

Saliamo in dieci su una macchina.
Quando arriviamo, troviamo un’auto incendiata, due persone sono finite in ospedale a causa dei coloni: a una delle due hanno spaccato la testa e gli hanno versato addosso della benzina, l’altra ha una gamba rotta. I campi sono ancora fumanti. Centinaia di olivi antichi che bruciano… un colpo al cuore.
I palestinesi ci guidano tra le ceneri. Sono protettivi con noi, camminano davanti, non vogliono farci correre rischi.
Da lontano si vede l’ennesimo outpost, un insediamento nuovo: tende colorate che presto diventeranno container, poi case.

È così che comincia sempre. Su terra palestinese.
Lo Stato di Israele lo sa, e lascia fare. Anzi, finanzia.

Hanno avuto il tempo di bruciare tutto intorno al nuovo insediamento. E di sparare, da lontano.
Questa è terra palestinese. Curata, amata e tramandata, difesa ogni giorno e ogni notte.

Noi siamo qui per una campagna che si chiama Faz3a — parola che significa aiuto nel momento del bisogno ma anche solidarietà. Noi siamo qui per andare a raccogliere le olive, perché se ci sono “gli internazionali” i coloni sono meno feroci. I palestinesi devono chiedere il permesso all’esercito per prendersi cura dei propri alberi.

Eppure la raccolta resta una festa.
La raccolta è l’amore per la terra, il senso di giustizia, la memoria di chi c’era prima.
Quest’anno è ancora più difficile, vogliono prendersi tutta la Cisgiordania e gli israeliani sempre più aggressivi.

Quello che tengono vivo i palestinesi si chiama sumud: fermezza, resilienza, ostinazione nella dignità.

E noi — noi che veniamo da fuori – siamo la loro flottiglia di terra.

* Volontaria Assopace Palestina

Da venerdì 14 novembre è nelle edicole e nelle librerie selezionate il nuovo numero di Millennium dal titolo “Gangs of Netanyahu” con inchieste e approfondimenti sulla guerra strisciante in Cisgiordania e il racconto degli appoggi politici ed economici ai gruppi più estremisti, responsabili di omicidi e danneggiamenti contro i palestinesi