
In vent'anni non hanno mai denunciato l'abbandono, oggi gli esperti chiedono demolizioni e invocano concorsi internazionali per una ricostruzione in chiave contemporanea
È sopravvissuta a tre terremoti, a restauri invasivi e a quasi vent’anni di abbandono. Non al Pnrr. La Torre dei Conti, nel cuore di Roma, ha ceduto durante i lavori di restauro: gli stessi fondi che avrebbero dovuto salvarla, “valorizzarla”, l’hanno, paradossalmente, sventrata.
Un crollo che provoca una vertigine collettiva: vacilla l’idea stessa di civiltà. Non è solo la perdita di un patrimonio storico, ma la frattura di un ordine simbolico che lega spazio, tempo e memoria. Ogni cedimento è un fallimento collettivo: di cura e responsabilità. Roma vive sul sottile equilibrio tra ciò che resta e ciò che si rigenera. Il cedimento odierno rivela non solo una fragilità strutturale, ma anche culturale: quella di un Paese che ha sostituito la manutenzione con la retorica della memoria.
Ma la torre non è solo un edificio, nella cultura occidentale è un archetipo. La sua genealogia simbolica comincia con Babele: secondo la Bibbia, l’origine stessa della storia dell’umanità si lega a una torre interrotta dalla volontà divina. Da allora, ogni torre — medievale o moderna, fino ai grattacieli — custodisce l’antica ambivalenza: potere e vulnerabilità. Il crollo resta un ammonimento dei nostri limiti.
La Roma del XIII secolo mostrava un profilo “turrito”: un paesaggio affilato, dove le famiglie baronali si contendevano il cielo. Le cronache parlano di oltre trecento torri disseminate tra Trastevere, Campo Marzio e i rioni intorno ai Fori, «così numerose da sembrare spighe di grano». La Torre dei Conti era uno di quei segni incisi nella materia della città: incarnava la potenza familiare e la rinascita di una Roma sorta dalle rovine dell’antica. Costruita dal 1203 dalla famiglia dei Conti di Segni, su disegno di Marchionne Aretino – architetto e scultore tra i più leggendari del suo tempo – si innalzava a sessanta metri, rivestita di travertino recuperato dai Fori: fortezza bianca, simbolo della potenza baronale. Di quella verticalità oggi resta meno della metà, come se il tempo avesse proseguito l’interruzione di Babele.
Oggi la Torre dei Conti è una soglia tra la Roma antica e quella medievale: un miracolo sopravvissuto a tre terremoti (1348, 1630, 1644), al fascismo che la isolò dal tessuto urbano e la elevò a reliquia solitaria tra via Cavour e via dei Fori Imperiali; a restauri approssimativi e ad altri invasivi — come quello del 1937 di Antonio Muñoz, che la consegnò agli Arditi e alla retorica della “Roma eterna” mussoliniana; a spoliazioni, isolamenti e reinterpretazioni. È sopravvissuta persino all’incuria: dal 2007 era in «generale fatiscenza», minacciata dalle vibrazioni del traffico e dall’indifferenza delle istituzioni.
Ora la Torre dei Conti dovrà confrontarsi anche con gli esperti indignati dell’ultima ora. In vent’anni non hanno mai denunciato l’abbandono; oggi chiedono demolizioni e invocano concorsi internazionali per una ricostruzione in chiave contemporanea. Va ricordata una regola minima, ma essenziale: prima di qualunque proposta, occorre attendere i risultati delle verifiche sul collasso. Non è solo metodo; è la condizione indispensabile per formulare proposte con senso critico e rispetto della storia.