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Ultimo aggiornamento: 14:31 del 26 Ottobre

L’appello alla Ue per fermare la guerra in Congo: “Riveda gli accordi col Ruanda per una filiera sostenibile del coltan”

Il punto alla settimana internazionale di mobilitazione che denuncia il legame tra tecnologia e violenza nel Kivu e nell’est della Repubblica Democratica del Congo
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“Avevo dieci anni quando ho vissuto la mia prima guerra. Ricordo ancora l’orrore dei corpi bruciati che dovevamo superare per metterci in salvo.” Così Evelyne Sukali, mediatrice culturale e attivista congolese, a Genova, a margine di un incontro della “Congo Week”, settimana internazionale di mobilitazione che denuncia il legame tra tecnologia e violenza nel Kivu e nell’est della Repubblica Democratica del Congo e che chiede un intervento della comunità internazionale per fermare un sistema di conflitti che dal 1996 si riaccende a fasi alterne. Le stime delle vittime variano: il Council on Foreign Relations indica circa sei milioni dal 1996 a oggi, ma altre stime arrivano a dieci milioni di morti e molti più sfollati interni. Giacomo D’Alessandro per “Luci sul Kivu” collega l’industria digitale alla predazione dei minerali: “Più di cento gruppi armati terrorizzano i territori per desertificare i villaggi e aprire miniere, adesso prevalentemente di coltan.” Come in ogni aggressione militare, non mancano episodi di violenze e particolare accanimento contro le donne. L’attivista descrive i flussi che attraversano il confine verso il Ruanda, dove i carichi vengono poi certificati come legali e venduti in tutto il mondo. Si stima che circa l’80 per cento di alcune delle terre rare usate in smartphone e batterie provenga proprio dal Kivu, la stessa regione dove nel febbraio 2021 è stato assassinato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio con il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo che lo accompagnavano a visitare un programma di alimentazione scolastica del World Food Programme.

A confermare gli effetti della corsa all’accaparramento della ricchezza del sottosuolo congolese, che fin dagli anni Settanta rappresenta la sua condanna a perenni conflitti, è Franco Bordignon, missionario nel Sud Kivu dal 1972: “Bisogna respingere qualsiasi lettura ‘tribale’ di questi conflitti — spiega il sacerdote, che nelle prossime settimane tornerà in Africa dopo un brevissimo periodo in Italia — è chiaro che si tratta di guerre portate avanti per conto di potenze internazionali che si contendono l’area. Basti pensare che in Congo non esistono fabbriche di armi: arriva tutto dalle diverse egemonie che da sempre si contendono le ricchezze del sottosuolo attraverso forze locali manovrate e corrotte.” In particolare, adesso, i gruppi armati arriverebbero dal Ruanda: per questo gli attivisti per la pace in Congo chiedono che l’Unione Europea stabilisca una legge sulla filiera dei minerali come esiste per il tessile: “Non si può tollerare l’ipocrisia con cui si prendono accordi con il Ruanda per l’importazione di una materia prima che non possiede sul suo territorio, senza verificare e garantire la sostenibilità della filiera — spiega Sukali — con la Russia sono state elevate sanzioni, lo stesso dovrebbe avvenire con il Ruanda che da anni sta aggredendo il Congo con truppe e fuoco oltreconfine a sostegno del gruppo armato M23, che viene addestrato, comandato ed equipaggiato per il controllo delle aree minerarie e il contrabbando”. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte denunciato gli attacchi dei ‘ribelli’ dell’M23 a Goma. Il 27 giugno 2025, a Washington, i ministri degli Esteri Olivier Nduhungirehe per il Ruanda e Thérèse Kayikwamba Wagner per la repubblica democratica del Congo hanno firmato un trattato di pace; finora, però, questo non ha comportato né un’interruzione del supporto più o meno indiretto del governo di Paul Kagame ai ‘ribelli’ né il ritiro dei mezzi e delle unità militari ruandesi presenti in Congo.

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